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«I nostri avvocati hanno fatto richieste al Mef e al Mise di avere accesso alle informazioni ambientali contenute nell’ultimo contratto del 10 dicembre 2020 tra Arcelormittal ed Invitalia. Ma tale accesso è stato negato».
Lo denuncia Lina Ambrogi Melle, presidente del Comitato donne e futuro per Taranto libera, prima firmataria del secondo ricorso alla Corte europea dei diritti umani (Cedu) di Strasburgo contro lo Stato italiano per la questione ex-Ilva.
«Nonostante la prima sentenza sovranazionale di condanna da parte della Cedu del 24 gennaio 2019 - sostiene Ambrogi Melle - nulla è di fatto cambiato a Taranto perché gli stessi impianti continuano ad essere in funzione con grave danno per l’ambiente e la salute dei tarantini, come accertato anche dalla recente sentenza del Tar di Lecce riguardo l’ordinanza del sindaco di Taranto sulle emissioni».
Il nuovo ricorso intende «dimostrare - aggiunge la prima firmataria - che i governi italiani vanno sostanzialmente nella direzione opposta alla prima sentenza e per questo sollecitiamo eccezionalmente quella sentenza-pilota che indichi espressamente al governo quelle misure generali volte a eliminare le cause delle violazioni e quindi la chiusura dell’area a caldo». I legali avevano chiesto documentazione che «è stata negata. Per Taranto, città strategica per la Nazione - conclude Ambrogi Melle - non vale la Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998 sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale? Confidiamo nella Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo che presto emetterà una nuova sentenza perché restituisca a Taranto giustizia, dignità e aria pulita».
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