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Nel recensire la Mostra della caricatura leccese (1908), Pietro Palumbo scriveva che «un filone di umorismo ha sempre pervaso le vene di noi salentini». E forse più che per l’umorismo i leccesi di una volta si distinguevano per ironia e buon umore, proprio quelle qualità che nel corso dell’Ottocento – prima non siamo meglio informati – caratterizzavano i piccoli artigiani che si cimentavano con i pupi e soprattutto con le statuette in creta e i disegni colorati raffiguranti personaggi locali noti e meno noti, senza cattiveria o partigianeria politica. Opere diffuse dai numerosi fogli che si stampavano settimanalmente, con diffusioni più alte di quelle odierne. Nell’esecuzione di queste statuine fu leggendario Giuseppe detto Pippi Rossi (Lecce, 1861-1931) che firmava le sue deliziose caricature Roiss. Ma prima di costui, tra l’altro efficacissimo disegnatore, si era messo a fare pupazzetti caricaturali Basilio Bandello che aveva bottega di barbiere sotto palazzo Personè al Corso. Realizzò la caricatura di Don Ortensio – personaggio che non a caso diede il nome a un foglio umoristico – e di Don Limone, storpiatura del nome vero, Ivone Blanco di Soleto, popolarissimo fannullone che aveva sperperato le sostanze avite e viveva di espedienti con una pensione concessagli dai Borbone e poi, per inconfessabili motivi (spia?), confermatagli dal nuovo governo.
Costui era alto e grasso, dal viso butterato dal vaiolo e con i capelli tinti e impomatati. Era solito passeggiare con cravatte sgargianti, pantaloni bianchi e guanti. Normalmente monelli e giovinastri lo rincorrevano sbeffeggiandolo. Lui, dicono le cronache, si rifugiava in qualche portone e traendo dal taschino l’inseparabile specchietto esclamava: «O Dio, non più bellezza, le donne mi perseguitano». Un impareggiabile spasso per il popolo e fonte di preoccupazione per i genitori che avevano figlie giovani e belle.
Ma ti pare, mio caro don Limone
(La scusi, cavaliere volevo dire)
Che il ticchio d’ispirare una passione
In un uomo come lei possa capire?
Ed in cor di ricca e nobile donzella
D’una rosa di maggio assai più bella?
Perdio, ci vuol coraggio a sessant’anni,
Di sego e nerofumo inzafardato,
Con quel viso peggio d’un barbagianni
Ed al par di colatoio butterato,
Pretenderla a Narciso o a Ganimede:
Ci vede, cavaliere, o non ci vede?
Ma che cosa sarà se una pazzia
Che un coso al par di lei che non val nulla
Si senta strombazzar per ogni via
Tira a possesso di ricca fanciulla.
Ah, credete davvero che sia matto?
Scusate, io non lo credo a nessun patto.
Senta dunque, mio caro cavaliere,
Se ancor vivesse quel possente amico
Fosse Giulietta o no del suo parere
O il duca, il mondo importerebbe un fico:
Ché tosto o tardi troverebbe modo
Di conficcar dove vorrebbe il chiodo.
Ma si spense con lui la protezione.
Restò la legge che per tutti è eguale:
Chi sgambetta si manda oggi in prigione
E chi è matto si manda all’Ospedale.
Dunque, Limone mio, cangia pensiero
Se no, col tempo, impazzirai davvero!
Si seppe, in seguito, che costui era già stato processato a Lecce e a Milano per attentato al pudore e cacciato pure da Torino. Uno spirito caustico colpì pure un celebre salentino di Sannicola di Gallipoli, Achille Starace, potente segretario del Partito Nazionale Fascista. Lecce, è noto, non si fece mai trascinare del tutto dal fanatismo staraciano, specialmente quando, nel 1923, a “danno” del territorio della città, era stata creata la Provincia di Taranto prima e poi quella di Brindisi (1927). Nonostante che il clima leccese gli fosse ostile, Starace volle recarsi in visita a Lecce. Gli fu suggerito di ritirarsi nell’albergo e di non uscire. La mattina sui muri della città furono trovati questi versi: «Respira Roma quando Starace parte / esulta Taranto quando Starace arriva / Lecce, Città d’Arte / se ne frega quando arriva e quando parte». Il Pasquino leccese, ultimo di questa ironica e sarcastica genìa, non fu mai scoperto. Tra l’altro, in quei decenni a Lecce si pubblicarono diversi giornali umoristici con altissime tirature. Oggi nessuno di questi sopravvive.
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