«In trincea accanto ai deboli, andiamo avanti con coraggio»: don Cesare Lodeserto e l'anniversario della Fondazione Regina Pacis

«In trincea accanto ai deboli, andiamo avanti con coraggio»: don Cesare Lodeserto e l'anniversario della Fondazione Regina Pacis
La Moldavia è il Paese più povero d’Europa. Racchiusa tra Romania e Ucraina, senza sbocchi al mare, ha subìto negli ultimi anni un crollo demografico...

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La Moldavia è il Paese più povero d’Europa. Racchiusa tra Romania e Ucraina, senza sbocchi al mare, ha subìto negli ultimi anni un crollo demografico (da 4 a 2,7 milioni di abitanti), segno di una crisi socio-economica che ha spinto soprattutto giovani e donne a cercare fortuna altrove. Oggi la Moldavia è ai confini della guerra che sconvolge l’Ucraina e l’assordante rumore dei bombardamenti annuncia un possibile coinvolgimento. Del resto una sua storica regione, la Transnistria, rimasta nell’orbita di Mosca dopo il crollo dell’Urss, è una base militare russa. Un coltello puntato da Putin sul fianco dei moldavi.


In questo Paese di frontiera, che conta una piccola ma attiva presenza di cattolici, la Fondazione Regina Pacis prosegue la sua missione di assistenza ai bisognosi, iniziata 25 anni fa a Lecce. Un impegno lungo un quarto di secolo nel corso del quale la Fondazione ha avuto due vite e due sedi (Lecce-Roca e Moldavia), ma un’unica guida, quella di don Cesare Lodeserto, ora vicario generale del vescovo di Chisinau, Anton Cosa.
È il 7 marzo 1997 quando nel Salento scatta l’emergenza per l’arrivo di migliaia di profughi albanesi. Su richiesta del prefetto di Lecce Guido Nardone, l’arcivescovo Cosmo Francesco Ruppi acconsente che venga aperto per l’accoglienza il seminario estivo di San Foca. Tocca a don Cesare Lodeserto, segretario particolare del prelato, rendere operativa la struttura per assicurare un letto, il cibo e l’assistenza ai profughi.
Nasce così la Fondazione Regina Pacis che nei primi sei anni di attività accoglie 60.000 profughi, diventando un punto di riferimento nazionale dell’accoglienza tanto da essere visitata dal presidente della Repubblica Ciampi, dai premier Prodi e D’Alema, dal governatore di Bankitalia Fazio e da numerose altre autorità italiane e straniere.
Un percorso a un certo punto macchiato da alcune inchieste giudiziarie che colpiscono don Cesare per la gestione del Regina Pacis, sino alla sua condanna. Il sacerdote risponde osservando il principio che «le sentenze non si giudicano, si rispettano», anche quando possono essere percepite come ingiuste, ma non abbandona la trincea della solidarietà verso i più deboli.
«La felicità più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta», dice il saggio. E a questa lezione di vita don Cesare si attiene. «Del resto - racconta - non potevo tradire una missione alla quale ero impegnato da anni. La collaborazione tra la Fondazione Regina Pacis e la Diocesi di Chisinau risaliva all’agosto del 2000 con una presenza saltuaria di assistenza sino al 2007. Nel 2008 il trasferimento della Fondazione a Chisinau resa a tutti gli effetti un ente moldavo». L’inizio della seconda vita.

Quali i campi di intervento in terra moldava?
«Sono cinque: assistenza ai poveri, ai minori non accompagnati, alle donne vittime di sfruttamento, alle famiglie in difficoltà, ai minori detenuti. In base a questi obiettivi sono state create delle strutture: tre case famiglie per minori, due mense per i poveri; una scuola professionale nel carcere minorile; un emporio sociale per la distribuzione di beni di prima necessità ai bisognosi; due residenze sociali per giovani senza abitazione; due progetti per la prevenzione del suicidio minorile, qui molto diffuso; progetti di messa alla prova di minori che hanno commesso reati per evitare loro la detenzione».
Chi amministra e come un’attività così intensa?
«La Fondazione ha un Consiglio di amministrazione, del quale sono presidente, un Direttivo e 40 dipendenti. Il direttore operativo è un moldavo, Ilie Zabica. Ogni anno abbiamo la disponibilità di quattro volontari italiani che svolgono in Moldavia il servizio civile per 11 mesi».
Quali sono i costi di gestione e da dove vengono le risorse?
«Sino al 2021 il budget della Fondazione era di circa 500.000 euro l’anno, ma prima con il Covid e poi con la guerra le esigenze sono cresciute. Il 75% delle risorse proviene da progetti internazionali finanziati; il resto è frutto di libere donazioni e aiuti di Enti ecclesiastici e Diocesi italiani e non. La maggior parte dei fondi arriva da Germania, Olanda, Austria, Giappone, America, l’Italia è in coda».
Che cosa ha significato lo shock pandemico per la vostra azione?
«La pandemia ha colpito un Paese non preparato ad affrontare una simile emergenza sanitaria. A pagarne le conseguenze soprattutto le fasce più deboli che rappresentano il 30% della popolazione. È toccato a noi moltiplicare l’impegno garantendo l’assistenza domiciliare con specifici kit sanitari ai cittadini bisognosi. Abbiamo raddoppiato il numero di assistiti, potendo contare anche sulla consulenza di alcuni medici leccesi. Allo stesso tempo abbiamo dovuto tutelare il cammino formativo dei ragazzi da noi seguiti attrezzando il sistema per l’insegnamento a distanza. Tutto questo ha comportato un aumento del budget annuale del 20%. Ma siamo andati avanti».
Dal Covid all’invasione dell’Ucraina. Quali ricadute sulla Moldavia?
«In realtà dopo l’emergenza sanitaria e prima della guerra, la Moldavia ha dovuto fare i conti con una crisi energetica provocata dalla Russia che ha aumentato il prezzo di vendita del gas. Una rappresaglia dopo la costituzione a Chisinau di un governo filo-europeo. La cosa ha provocato forti disagi tra le fasce sociali più esposte, siamo intervenuti con forme di aiuto per il pagamento delle bollette del gas. Poi lo scorso febbraio è arrivata la guerra, la tempesta è diventata un uragano e la Moldavia si è trovata nella prima linea delle retrovie degli scontri armati».
Che cosa è successo?
«Solo nella prima settimana di guerra i moldavi hanno accolto oltre 500.000 ucraini, quasi tutti donne, bambini e anziani. Attualmente i profughi presenti sono circa centomila, più che in Italia. Intanto, la guerra infuria alle porte della Moldavia, distante solo 30 chilometri da Odessa, uno degli obiettivi di conquista delle truppe russe. La paura cresce assieme alle difficoltà della popolazione».
Le risposte del Regina Pacis? 
«Seguendo la nostra vocazione, abbiamo attivato specifici servizi di accoglienza e di assistenza ai profughi. Ci sono tre centri di servizio attivi, uno dei quali per minori non accompagnati, ed è all’opera una struttura per assistere in tutto 250 famiglie al giorno, circa mille persone. Molte profughe, poi, sono arrivate in stato di gravidanza, sino ad oggi sono nati circa 800 bambini, altri 400 nasceranno nelle prossime settimane. Noi stiamo al loro fianco in modo che possano partorire in condizioni di serenità e sicurezza».
Lo stato d’animo dopo cinque mesi di conflitto?
«È un momento di grande incertezza per tutti: i moldavi temono per il loro futuro, come gli ucraini. È una paura diffusa anche perché nessuno immagina come e quando potrà essere spento un incendio che sta devastando il cuore dell’Europa. Il disegno di Putin è quello di ricostruire la Grande Russia e oggi nessuno può prevedere dove e quando vorrà fermare le sue truppe».
Intanto, come si muoverà il Regina Pacis?


«Restiamo sulla strada tracciata con l’impegno e la disponibilità di sempre. E con l’energia che viene dalla vicinanza di tante persone amiche in ogni angolo del Mondo e di preziosi riconoscimenti, come quello della Presidente della Moldavia, Maia Sandu, che in una lettera ufficiale si è congratulata con noi per l’attività di assistenza ai profughi ucraini. È un forte incoraggiamento ad andare avanti con coraggio, come ci chiede Papa Francesco». Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia