Ci voleva una prova di forza, ed è arrivata. Dopo tre mesi di graticola per l’ex-premier ed ex-segretario, e dopo l’assalto degli scissionisti decisi a far...
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Ciò che, invece, ha colpito al Lingotto è stato lo schieramento, al suo fianco, di un parterre di ministri e di tecnici che hanno restituito al Pd la solidità e pluralità che – giustamente – può rivendicare rispetto agli altri partiti. Tutti, in un modo o nell’altro, riconducibili a un padre-padrone – che si tratti di Grillo o di Salvini o del fantasma di Berlusconi – in cui si identificano e dal quale dipendono in toto. Renzi è riuscito – almeno per il momento – a sottrarsi a questa trappola, al cul-de-sac del partito personale in cui Bersani & co. hanno cercato di infilarlo e schiacciarlo. Quello che esce dal Lingotto è il leader di un partito che resiste – unico nel panorama italiano – come organizzazione strutturata sul territorio, e con una classe dirigente ben visibile ed autorevole. Certo, nessuno si illude che la forza, la marcia in più e anche la direzione di marcia non dipendano – anche oggi - dall’ex-premier. E, tra i tutti i big che hanno sfilato sul palcoscenico, il ministro Minniti è stato quello che lo ha detto fuori dai denti. Dopo la ritrovata liturgia del noi al posto dell’io, è sempre Renzi quello che farà – se potrà – la differenza. Un dato che lo stesso ex-segretario ha rivendicato nel finale, con un escamotage retorico in cui ha posto di nuovo l’io – la responsabilità individuale – al centro dell’impegno politico. Ma allargando a tutti i militanti l’invito a farsene carico, con un esplicito richiamo a farsi avanti, a proporsi come nuovi leader.
In questo, resta netta e profonda la linea di demarcazione – culturale prima ancora che politica – con gli scissionisti della ditta, i custodi dei caminetti, del bilancino delle correnti. E della responsabilità collegiale dietro la quale, all’atto pratico, nascondere i rischi di una esposizione personale. Su questa linea, d’ombra e di svolta, Renzi è riuscito, per il momento, a trovare un compromesso convincente. Ma sarà messo alla prova non appena si dovesse passare dalla sfida per la segreteria del partito a una nuova stagione di governo. Nella fase attuale, all’ex-premier può soltanto giovare uno stile meno narcisista e delle scelte più inclusive. Il Renzi 2.0, con più community e più comunità, ha tutto da guadagnare nell’immagine e, forse, anche nel numero dei follower. Tutt’altra storia sarà se – e quando – dopo le elezioni per il rinnovo del parlamento il Pd si dovrà confrontare con lo sconquasso dell’attuale legge elettorale, che non appare modificabile nel suo impianto iperproporzionalistico.
A quel punto non si tratterà più solo di una trasformazione tattica, o comunque limitata ai rapporti col partito. Renzi dovrebbe vestire i panni di tessitore e manovratore di un governo di coalizione. In cui non ci sarebbero soltanto comprimari, come negli ultimi tre anni. Ma altri partner con un peso decisivo a fare andare avanti, o meno, l’esecutivo. Certo, si potrebbe obiettare che in Germania è già così. E che la Merkel ha per tutti questi anni gestito il suo ruolo di super-cancelliera senza che mai gli alleati Spd provassero a farle ombra. Ma l’Italia, si sa, è un altro paese. E se Renzi, come è sembrato in questi giorni, dovesse riuscire a ritrovare un po’ di vento nelle sue vele, diventerà nuovamente il bersaglio principale contro cui combattere. E non è facile prevedere in che misura sarà bravo a giocare a nascondino, invece di tornare ad alzare la cresta e mostrare il petto come il suo temperamento lo ha portato – per sciagura sua e dell’Italia – a fare nel recente passato. Sarà questo il rebus del nuovo show. Che ieri è ripartito, e di cui Renzi resta il protagonista. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia