Il Partito democratico fortemente voluto da Walter Veltroni nel 2007 per tentare di superare la frammentazione del centro-sinistra, che aveva comportato non poche grane alla...
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Veltroni si dimise da segretario e, dopo una breve reggenza di Franceschini, le primarie premiarono Bersani ed il suo programma orientato verso una più classica impostazione di sinistra. Di fatto questa impostazione rimase però sulla carta, prima per la centralità assunta dalla questione-Berlusconi e quindi dal generico antiberlusconismo, poi perché, dimessosi Berlusconi nel 2011, il Pd fu schierato da Bersani a sostegno coerente (fin troppo coerente disse qualcuno) del programma liberal-conservatore di Mario Monti. Le decisioni più contestate da una parte dell’elettorato di sinistra furono sicuramente le nuove norme in materia di lavoro, che tra l’altro comportarono anche la riformulazione del famoso articolo 18, e di pensioni, con il drastico stop alle pensioni di anzianità, che non escluse nemmeno i cosiddetti esodati e gli addetti ai lavori usuranti. Questo spiega in parte, insieme alla discesa in campo di Scelta Civica capitanata da Monti che sottrasse qualche voto al Pd, l’insuccesso elettorale del 2013, quando il Pd fu sorpassato dal Movimento 5Stelle.
Bersani cercò un recupero di alcuni temi di sinistra a marzo 2013, tentando di negoziare con i 5Stelle la formazione comunque di un governo. Riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, estensione del sussidio di disoccupazione, varo del reddito di inserimento: queste proposte furono esposte all’interno degli 8 punti programmatici approvati dalla Direzione del Pd. Ma il tentativo fallì e poco dopo Bersani rassegnò le dimissioni da segretario. A questo punto, dopo il provvisorio incarico a Guglielmo Epifani, Matteo Renzi riuscì a conquistare un ampio favore popolare al suo programma, che poggiava su due elementi: da un lato innovazione, rottamazione, decisioni rapide; dall’altro contenuti in materia economica e del lavoro abbastanza in linea con l’impostazione originaria data da Veltroni nel 2007 al Lingotto di Torino. Si trattò di una vera e propria scalata dall’esterno a parte di un leader ed una squadra ristretta e affiatata alla conquista di un marchio, appunto il Pd, che nei 6 anni precedenti non era riuscito a caratterizzarsi con un chiaro asse politico-programmatico.
Sorvolando sui passaggi che portarono poi Renzi al governo, e anche sull’approccio para-bonapartista che ha caratterizzato i suoi 1015 giorni di presidenza, è chiaro che il ritorno alle origini con il rispolvero della vocazione maggioritaria aveva bisogno, più che della riforma costituzionale, di una coerente legge elettorale. L’Italicum aveva nelle intenzioni queste caratteristiche richiamando, anche agli occhi di uno stanco Berlusconi, i fasti dello schema bipolare. La sconfitta al referendum del 4 dicembre, quando il variegato fronte del No è riuscito ad attirare l’attenzione sul rischio di un “uomo solo al comando” e il medesimo “uomo solo” ha concorso fattivamente a confermare questa preoccupazione, ha inferto un colpo tremendo alla strategia renziana. Ma il colpo definitivo è venuto dalla sentenza, quantunque prevedibile, di censura di alcuni aspetti dell’Italicum, come il ballottaggio in assenza di una soglia minima, da parte della Corte Costituzionale.
Questa sentenza ha prodotto il definitivo affossamento delle aspirazioni sia di Renzi che di Di Maio di poter vincere le elezioni e governare da soli. La piccola scissione del Pd di questi giorni rappresenta un ulteriore corollario di questo quadro modificato. Dal 24 gennaio 2017 abbiamo la certezza che, qualunque legge elettorale sia approvata dal Parlamento (se ci riuscirà), l’Italia potrà essere governata solo da coalizioni di partiti. È questa la vera vittoria di Massimo D’Alema, da sempre scettico sul partito a vocazione maggioritaria. Quindi il Pd potrà non cambiare nome, così come Renzi potrà continuare a chiamarsi Matteo e vincere il Congresso, ma la sostanza politica sia del Partito che del leader cambierà inevitabilmente. Se le primarie saranno vinte da Renzi il Pd diventerà definitivamente il PdR (Partito di Renzi), come dice Ilvo Diamanti, oppure emergerà al Lingotto il 10 marzo una piattaforma programmatica a vocazione maggioritaria ma aperta al confronto con le altre forze di sinistra, come auspica Michele Salvati? Se prevalesse Orlando si tornerebbe al Pd del periodo Bersani oppure possiamo aspettarci un rilancio su nuove basi dell’idea socialdemocratica sul modello della campagna di Martin Schulz? Se prevalesse Emiliano avremmo una grossa novità, paragonabile alla scalata di Renzi nel 2013, ma il Presidente della Puglia riuscirà in tempi brevi a comunicare una visione programmatica equivalente o migliore, anche come impatto mediatico, rispetto ai famosi cento punti della Leopolda che accompagnarono la scalata di Renzi?
In ogni caso il Pd dopo il Congresso sarà un soggetto politico diverso da quello sognato da Veltroni. Non sarebbe poi male se gli scissionisti del Pd, veri partecipanti esterni al Congresso, superassero questa fase attendista, abbandonando l’atteggiamento di chi non si sbilancia in attesa dell’esito congressuale. Mantenere le promesse elaborando un buon programma politico sarebbe sicuramente il più efficace intervento esterno nel dibattito congressuale del Pd. Ma molti dubitano che accadrà.
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Quotidiano Di Puglia