«L’imposizione del velo è maltrattamento»: l’ex marito condannato a cinque anni

«L’imposizione del velo è maltrattamento»: l’ex marito condannato a cinque anni
Un uomo di nazionalità marocchina è stato condannato a cinque anni di reclusione con l’accusa, fra le altre, di avere imposto il velo islamico alla giovane...

OFFERTA SPECIALE

2 ANNI
99,98€
40€
Per 2 anni
SCEGLI ORA
OFFERTA FLASH
ANNUALE
49,99€
19€
Per 1 anno
SCEGLI ORA
 
MENSILE
4,99€
1€ AL MESE
Per 3 mesi
SCEGLI ORA

OFFERTA SPECIALE

OFFERTA SPECIALE
MENSILE
4,99€
1€ AL MESE
Per 3 mesi
SCEGLI ORA
 
ANNUALE
49,99€
11,99€
Per 1 anno
SCEGLI ORA
2 ANNI
99,98€
29€
Per 2 anni
SCEGLI ORA
OFFERTA SPECIALE

Tutto il sito - Mese

6,99€ 1 € al mese x 12 mesi

Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese

oppure
1€ al mese per 3 mesi

Tutto il sito - Anno

79,99€ 9,99 € per 1 anno

Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno

Un uomo di nazionalità marocchina è stato condannato a cinque anni di reclusione con l’accusa, fra le altre, di avere imposto il velo islamico alla giovane moglie. Perché quell’imposizione è configurabile come maltrattamento in famiglia, ha spiegato la giudice della prima sezione penale del Tribunale di Lecce, Francesca Mariano, nelle motivazioni contestuali con il pronunciamento della sentenza. «In sostanza chi trasferisce la propria residenza in un paese estero con pretese di cittadinanza, magari per affrancarsi da condizioni originarie di povertà o persecuzione - riporta la sentenza - deve sapere che dovrà rispettare la legge del popolo di arrivo e non potrà in nessun modo ipotizzare di comportarsi come le leggi o gli usi e le consuetudini dello Stato di origine consentivano. Tantomeno per ragioni religiose in un luogo dove è riconosciuta la libertà di culto. Pertanto l’imposizione del velo islamico è maltrattamento».

 

Botte alla moglie incinta


Trentuno anni, residente in un paese del Basso Salento, per l’imputato l’accusa ha chiesto la condanna due anni di reclusione. Rispondeva di avere maltrattato la moglie fino a due anni fa, quando la 18enne era in attesa di un bambino: schiaffi, calci, pugni con tale violenza da costringerla ad andare in ospedale per scongiurare l’aborto. In una occasione le avrebbe puntato un coltello alla pancia dicendole «uccido te ed il bambino».
Sulla base dei fatti riscontrati nel processo, le considerazioni della giudice nelle motivazioni della sentenza: «Strattonare la donna per strada, colpirla con calci e pugni fuori e dentro l’abitazione, umiliarla calpestando le patatine comprate, è maltrattamento; tentare di col pirla con il pugnale è maltrattamento. Insomma ogni condotta di predominio violento, fisico e morale sulla propria moglie, persona libera e uguale nel diritto italiano, costituisce un reato indipendentemente da quale sia il credo personale o religioso. E se questa condotta viene tenuta con armi verso una moglie incinta il reato di maltrattamento è senza dubbio aggravato. Perché la vittima è soggetto vulnerabile per la condizione fisica delicatissima in cui verte ed è sovraesposta essendo disarmata davanti ad un’arma di punta e taglio idonea a ledere ed anche ad uccidere». 
Ed ancora qualche passaggio della sentenza: «Non c’è dubbio che...sia stata gravemente vessata dall’uomo che ha sposato, sia sul piano fisico, sia su quello psicologico, in forma continua e grave, in un’età di inesperienza della durezza della vita».


L’imputato è difeso dall’avvocato Simone Viva, la ragazza si è costituita parte civile con l’avvocatessa Anna Schiavano.

 

Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia