Pasolini, quell'ultima lezione a Lecce pochi giorni prima di essere ucciso

Pasolini, quell'ultima lezione a Lecce pochi giorni prima di essere ucciso
L’ultima frontiera dell’innocenza, l’ultimo baluardo resistente di un processo di omologazione prima linguistica e poi formale che stava assorbendo per sempre la società:...

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L’ultima frontiera dell’innocenza, l’ultimo baluardo resistente di un processo di omologazione prima linguistica e poi formale che stava assorbendo per sempre la società: erano soprattutto questo i “dialetti” per Pier Paolo Pasolini. Ed esattamente 40 anni fa lo venne a dire a Lecce, nella sua celebre ultima lezione del 21 ottobre del 1975, pochi giorni prima di venire ucciso all’Idroscalo di Ostia.




L’incontro leccese, che rientrava in un corso di aggiornamento per insegnanti, si svolse quella mattina nell’aula magna del liceo classico “Palmieri” per far partecipare anche gli studenti (subito dopo il regista andò a Calimera per incontrare i cantori la cui pratica di “conservazione” riteneva straordinaria) e il titolo scelto dallo scrittore fu “Il volgar’eloquio”. Pasolini lesse gli ultimi versi del suo monologo “Bestia di stile” (allora inedito) e poi scelse di parlarne con il pubblico, senza tenere una vera conferenza.



Il dialetto (anzi “tutti” i dialetti che infatti inseriva nei suoi film) rappresentavano nella lungimirante lettura del poeta- regista- intellettuale Pasolini, una riserva etica contro il linguaggio burocratico imperante, “il lessico industriale” che era un’arma del potere politico. La ruggine che ricopriva i dialetti, la corrosione di queste lingue spontanee della gente, erano per lui lo specchio dello scolorimento della stessa forza popolare, una forza infiacchita da un sistema mirante a cambiare per sempre la società verso un allargamento del mercato.



Denunciava Pasolini, in tempi non sospetti, che non servivano più bravi cittadini, ma solo bravi consumatori e questo significava produrre una mutazione antropologica a cui i popoli stavano soggiacendo. E in particolare gli italiani per Pasolini erano più esposti di altri perché il consumismo era la prima vera forma di unificazione che stavano conoscendo. Disse a Lecce «...l’Italia non ha avuto né un’unificazione monarchica, né un’unificazione luterana riformistica, che è quella che ha preparato la civiltà industriale, né la rivoluzione borghese... quindi per la prima volta l’Italia è unificata dal consumismo. Ed è una cosa abbastanza terrorizzante, e abbastanza definitiva».



Si capisce da queste poche parole che Pasolini in questa ultima occasione pubblica lasciò una sorta di testamento di quello che era la sua lettura complessiva della realtà. «Il consumismo - disse - è una forma assolutamente nuova, rivoluzionaria, del capitalismo, perché ha degli elementi nuovi dentro di sé che lo rivoluzionano: cioè la produzione di beni superflui in scala enorme e quindi la scoperta della funzione edonistica».



Il cosiddetto progresso conteneva i germi di un viaggio di sola andata verso l’imbarbarimento: non era una visione reazionaria la sua, né rivoluzionaria, ma semmai profetica, come purtroppo il tempo avrebbe dimostrato.

Anche della Tv, che negli anni Sessanta e Settanta era diventata un modello, un vero totem nelle case degli italiani, Pasolini per primo denunciò il pericoloso ruolo “cattedratico” che tendeva a omologare, schiacciare le personalità e la capacità reattiva degli individui.



Tutto secondo lui stava procedendo in una lunga marcia verso una società incentrata sul mercato, ma a quel tempo nessuno sembrava in grado di condividere, con occhi ugualmente aperti, le “sconcertanti” visioni pasoliniane. Come sconcertanti apparivano i suoi film, di cui si capì tardi anche l’aspirazione estetica legata all’arte di Masaccio, Giotto e altri con i loro scorci di mondo, i capolavori che Pasolini cercava di riproporre nelle sue inquadrature. Ma da “Il Vangelo secondo Matteo” del 1964 a “Uccellacci uccellini” del ‘67, “Edipo Re” del ’67 fino all’ultimo, girato nel ’75, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, anche i film proponevano tutti un affondo potente sulle storture della società di massa.



Spiegò infatti quella mattina a Lecce che non si sarebbe mai dovuto dimenticare l’assioma principale dell’economia politica marxista (che sostanzialmente chiude il cerchio sul suo pensiero e su quello che poi i successivi 40 anni hanno dimostrato): il processo di produzione non produce soltanto merci, ma contemporaneamente produce “rapporti sociali” che altro non sono che “umanità”. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia