L'avvento dei capipopolo al governo e i danni del “sudismo” nei territori

L'avvento dei capipopolo al governo e i danni del “sudismo” nei territori
Il grande vuoto ideale e politico lasciato dall’eclissi del meridionalismo di pensiero ha fatto emergere al Sud e sul Sud negli ultimi anni analisi e letture, ma anche...

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Il grande vuoto ideale e politico lasciato dall’eclissi del meridionalismo di pensiero ha fatto emergere al Sud e sul Sud negli ultimi anni analisi e letture, ma anche sentimenti, fascinazioni e personaggi che lo hanno ulteriormente danneggiato. Il Mezzogiorno è regredito, prima ancora che negli indicatori economici e sociali, sul piano politico, culturale, intellettuale e dell’informazione. È regredito non solo nell’incapacità di produrre una nuova visione condivisa e convincente, è fortemente regredito anche nella selezione e nell’espressione di chi è stato chiamato a rappresentarlo. Un abisso rispetto al passato, nonostante i difetti, le distorsioni e le degenerazioni delle vecchie classi dirigenti meridionali e nonostante il processo di decadenza del ceto politico non abbia riguardato solo il Meridione. Di sicuro, al Sud lo scarto tra il prima e il dopo si è presentato ancora più netto e marcato: sono riemersi i suoi lati e i suoi rappresentanti peggiori dopo la sistematica opera di demolizione dei corpi intermedi, dopo il crollo dei grandi soggetti collettivi. Nello stesso tempo, l’irrompere sulla scena della liquida e superficiale comunicazione digitale ha dato stura e libero sfogo al protagonismo degli “spiriti animali”, ha stappato la sentina del rancore e del malcontento, esaltata dalla rete, trasformando l’incompetenza in valore, i saperi in simulacri da abbattere, l’improvvisazione al potere in una conquista.




In questo “significante vuoto” ha avuto gioco facile ad affermarsi un’ondata anarco-populista che ha alimentato un ribellismo trasversale e un rivendicazionismo massimalista, impolitico, in reazione sia al vecchio leghismo settentrionale sia alle nuove paure create dalla globalizzazione. Hanno così trovato diritto di cittadinanza pulsioni, sentimenti e leader che hanno colmato la crisi del vecchio meridionalismo liberale e riformista con un “sudismo” della recriminazione, del rancore e del rigetto. Estremista nel linguaggio, rabbioso nei comportamenti, con una forte spinta all’autoisolamento come reazione alla lunga marginalità e alle decisioni calate dall’alto e subìte per molti secoli. Un “sudismo” pronto a “scassare” nel nome di un accentuato, quanto manipolato e strumentalizzato, orgoglio territoriale, con l’emergere e l’affermarsi di una corrente di pensiero più sovranista dei sovranisti: padroni a casa propria, ora decidiamo noi, qui ed ora, su tutto ciò che riguarda la nostra terra; e se non possiamo decidere noi, non possono e non devono decidere nemmeno gli altri. Una deriva che ha portato, anno dopo anno, pezzi e aree importanti del Sud a collocarsi spesso, con le istituzioni locali, all’opposizione dei governi nazionali e a rifiutare, a prescindere, tutto ciò che veniva da fuori.

È stata questa la variante meridionale della più generale rivolta contro il sistema e contro le élite maturata nelle società occidentali. Non solo il basso contro l’alto, gli emarginati contro gli integrati, i poveri contro i ricchi, ma un diffuso e trasversale sentimento di “rottura” e di “rancore” verso l’esterno. Questo sentimento ha accomunato, anno dopo anno, ceti disperati e ceti protetti, segmenti ampi della borghesia delle professioni e della stessa borghesia intellettuale della società meridionale. Una sorta di populismo identitario o, se si preferisce, di territorialismo populista che, a differenza di altri Paesi e altre aree geografiche in Occidente dopo la grande depressione del 2008, ha visto insieme e sullo stesso fronte “sofferenti” e “insofferenti”: il ribel- lismo antisistema proveniente dalle aree della “sofferenza” sociale ed economica si è incrociato, infatti, con l’area dell’“insofferenza” politica e culturale delle stesse élite meridionali anche in reazione alla dozzinale propaganda leghista contro il Sud, alle delusioni accumulate con i governi di centrodestra e di centrosinistra della Seconda Repubblica, ai nuovi fallimenti delle ridimensionate politiche pubbliche per il Mezzogiorno. Rivendicazioni, recriminazioni e sentimenti che hanno trovato ben presto forma e sostanza dentro la politica e le istituzioni locali con l’arrivo al governo di molte città e regioni meridionali di personaggi di forte rottura rispetto anche al passato più recente, confusionari mestatori di un melting pot tra ribellismo e territorialismo identitario, oltre che con un senso delle istituzioni e dello Stato molto approssimativo. Capipopolo più che governanti, demagoghi e agit prop più che studiosi dei dossier e dei problemi da risolvere, bravi a cavalcare la protesta e la rabbia urlante e debordante dei social più che a incanalarle in soluzioni di governo, capaci di sostenere tutto e il contrario di tutto, a seconda degli interlocutori e delle platee del momento, più che a indicare una direzione di marcia e a costruire senso, a perseguire una visione e un progetto (...). 

I danni sui territori periferici sono stati devastanti. Il già pesante deficit di classe dirigente nel Mezzogiorno si è allargato, la già scarsa qualità nella gestione delle istituzioni locali è peggiorata. Una distanza abissale rispetto alla capacità di governo e alla concretezza dimostrate negli stessi anni dalla classe dirigente e dal ceto politico-amministrativo alla guida delle città e delle regioni settentrionali, non solo di provenienza leghista ma di tutti gli schieramenti. Distanza non certo giustificabile soltanto con la diversa disponibilità di risorse e la differente possibilità di spesa.

Potremmo dire che al Sud, da Napoli alla Puglia, dalla Sicilia alla Calabria, le forze (e i personaggi) antisistema sono arrivate al governo molto prima che a Roma, molto prima dell’exploit del M5S alle elezioni del 4 marzo 2018. E ci sono arrivate con la spinta determinante della maggioranza del cosiddetto “ceto medio riflessivo”, della borghesia delle professioni e di quella intellettuale, non solo del Sud sofferente, lazzaro o fannullone, orfano delle protezioni e in cerca di nuove forme di assistenza. La pulsione palingenetica a “scassare” ha attecchito anche in segmenti insospettabili della società meridionale, in ampi spezzoni delle stesse classi dirigenti, che pure avevano fatto collezione di privilegi, protezioni e mance nel “vecchio regime”. Così il Mezzogiorno è stato risucchiato nel vortice anarco-populista e di un rivendicazionismo massimalista senza sbocchi, se non nell’autoisolamento. Con gli stessi governanti locali a soffiare, sovente, sul ribellismo e a interpretare un linguaggio radicale ed estremista per nascondere le proprie incapacità realizzative. E con gli stessi governanti a identificare, di volta in volta, nemici nazionali o internazionali e capri espiatori lontani dal Mezzogiorno per darli in pasto agli elettori, attraverso la piazza reale o mediatica (...).


La Puglia è la regione che, negli ultimi anni, più di tutte ha incubato ed elaborato le varianti e le contraddizioni del “sudismo”, sia di governo che di opposizione, sia politico che sociale e anche culturale, ed è diventata una sorta di laboratorio della “mutazione genetica” dei ruoli e delle funzioni propri di una classe dirigente. Un “sudismo”, impastato di sovranismo e anti-modernismo, che ha trovato terreno fertile nella valenza e nel concentrato delle questioni al centro dell’agenda pubblica pugliese – dalla xylella al gasdotto Tap e all’Ilva –, tutte di rilievo nazionale e diventate materie di scontro diretto tra centro e periferia. Proprio su questi temi, così sensibili e di grande interesse popolare, ma soprattutto di facile manipolazione nella formazione del sentimento pubblico, sono state sperimentate, prima che altrove, le disastrose conseguenze a cui una comunità e un territorio vanno incontro quando la politica e le istituzioni rincorrono tutte le piazze, reali e digitali, del ribellismo, parlando il “linguaggio del consenso” anziché il “linguaggio della verità”, inseguendo la followership invece della leadership, ricercando la popolarità anche se in contrasto con l’etica della responsabilità. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia