OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Non c’è via di mezzo e a questo punto forse nemmeno d’uscita. Da un estremo all’altro, come un pendolo impazzito: il linguaggio della politica è così, non conosce soluzioni intermedie. Oscilla ormai tra il bassissimo e l’apparentemente altissimo. Quindi: o il lessico sbracato, sguaiato, semplificato, da osteria social e da sfottò delle scuole medie, oppure quello oscuro, altisonante, imbevuto di tecnicismi e nuovi tic retorici, di parole tanto grandi, misteriose, affascinanti, manageriali e soprattutto troppo ricorrenti da essere alla fine solo attesa, pausa, rinvio, pretesto, “faremo” e “vedremo”. Le parole, in un caso e nell’altro e quando usate fino alla nausea (il segreto è sempre la giusta misura), alla fine degradano fino a diventare gusci vuoti ed evanescenti, le ascolti e sono solo fruscio di fondo. Se c’è una «cabina di regia» qualcosa vorrà pur dire e starà succedendo, o forse no ed è solo una supercazzola attendista, e allora pazienza, andiamo avanti. La politica, quando vuol dire tutto e sempre, alla fine non dice nulla.
Tra abitudine e moda
Fatta la premessa, veniamo al punto: non se ne può più. Di acronimi incomprensibili, di «Por» e «Lep», di anglicismi benintenzionati, di «due diligence» e di «deadline», dei dico-e-non-dico, di concetti usati come diversivo, dell’ampollosa e un po’ buffa retorica di parole che riempiranno pure il cuore e le insicurezze di chi le pronuncia, ma svuotano l’anima di chi ascolta o legge smarrito. Cosa diavolo sarà questa «Flat tax»? E perché mai, da destra a sinistra, hanno preso tutti una cocente sbandata per la «postura», dalla «postura internazionale», alla «postura ideologica»? Vai a capire. Ma del resto basta un «Pnrr da mettere a terra» (mai «realizzare»: ormai solo «mettere a terra»), una «piattaforma programmatica da rilanciare», una «mission da traguardare» e il gioco è fatto: anche il più naif dei deputati o il più sprovveduto degli assessori si sentirà lì, nell’olimpo degli statisti da Prima e Seconda Repubblica e dei grandi mandarini di Stato, o al limite nell’anticamera, perché così parlano “quelli importanti”, cosi decretano le “carte” dei ministeri e i tecnici degli assessorati, e così suggeriscono pure i ghostwriter, che ormai sono le tute blu della grande e rutilante fabbrica della comunicazione istituzionale e di partito.
Il difficile gioco della politica
La politica, nelle democrazie contemporanee, prova a esercitare la propria egemonia innanzitutto con le parole e col corpo del leader. E il potere, in un tempo così provvisorio e fugace, è prima di ogni cosa intrattenere e ammaliare l’elettore, raccontare una bella storia, fare la faccia giusta al momento giusto, sfoggiare la parola che arriva dritta al cuore o che confonde e stordisce con una ventata di burocratica complessità. C’è un lessico per tutto, in politica. Ce n’è uno per la campagna elettorale e per l’opposizione, quando si può esagerare, sbraitare, indignare e sognare. È lo «storytelling», ma anche questa è locuzione ormai usata e consunta, o la «narrazione», come evocava il poeta-presidente Nichi Vendola, o è soltanto il «populismo», cioè l’accusa che tutti fanno a tutti. E poi c’è un lessico per governare, quando i conti pubblici, l’Europa, i ministeri, le Agenzie, le Borse e il senso di realtà impongono paletti e limiti e obbligano al grigiore, all’attenzione, agli equilibri, ai toni curiali e in definitiva alla responsabilità. A proposito: «i responsabili» - segnatevi anche questo espediente retorico – a un certo punto di ogni Legislatura diventano in Parlamento la bombola d’ossigeno delle maggioranze in debito di numeri, ma banalmente i responsabili sono soltanto i deputati e senatori senza dio che corrono in soccorso del Potere di turno in difficoltà. D’altro canto – come disse con fulminante sarcasmo Francesco Cossiga riferendosi ai suoi “straccioni di Valmy”, portati a sostegno del governo D’Alema – «c’è sempre un’ala concretista»: altre parole, altro livello, altri tempi.
Ma tant’è. Persino i più incendiari e incazzati di tutti, cioè i cinque stelle, si sono subito abbandonati al sottile fascino della responsabilità: una volta al governo, hanno cambiato registro lessicale, dal “vaffanculo” elettorale in un batter d’ali si sono arresi a tutta la batteria di arzigogoli tecnici e in bello stile, per dichiarare senza dire, annunciare senza spiegare, come un qualsiasi deputato diccì di terza schiera degli anni ‘80.
L'ossessione per gli acronimi
La coperta più rassicurante alla quale aggrapparsi, di recente, sono gli acronimi: fanno chic e impegnano il giusto. Sarà che a far crollare la diga è stato l’onnipresente Pnrr (test: senza il supporto di Google ricordate tutti per cosa sta?), ma fioriscono ovunque: i Lep nell’autonomia differenziata, il Pug nelle città che è anticipato dal Dpp, senza dimenticare – sempre a livello comunale – il Pums, il Peba e il Prt. C’è ovviamente il Rdc per i più poveri, ora il Mia, ma in Puglia era stato già varato il Red. Giù al porto invece a governare tutto ci pensa l’Adsp. E se c’è da spiegare al cittadino-elettore che qui nessuno sta a guardare e che perciò sarà catapultata una pioggia di risorse dall’Europa e dintorni, via con la mitragliata di sigle: Por, Fsc, Fse, Fesr, Pac, Psr, Cis, React Eu, Next Generation Eu. Non è uno scherzo: a ciascuna corrisponde una direttrice di finanziamento, di spesa e di governance. Ahi, sì, vero, ci siamo cascati: «governance», la parola-scudo per addolcire la pillola e nobilitare. Se tutto va a rotoli ed è fuori controllo, allora ricordate che bisogna «ridisegnare la governance» e sarà la svolta. Magari «spacchettando» le competenze. Il Pnrr, con tutte le sue ramificazioni e derivazioni, ha inaugurato una sorta di neo-lingua, ispirata dalla tecnocrazia di Bruxelles e che risulta sufficientemente grave e impegnata da conferire un tono solenne a tutti: un progetto, ormai, si può solo «mettere a terra», rispettando i «target», i «milestone», il «cronoprogramma» e il «documento programmatico». Male che vada, si può sempre acconciare un «masterplan»: il buon, vecchio piano è inflazionato, abusato, stropicciato e a furia di rimanere nei cassetti ha perso credibilità. Ben gli sta.
C'è un tavolo per tutto e tutti
Di tutto e di più si può sempre discutere nell’immaginifica cabina di regia o al più tradizionale «tavolo»: nel dubbio, è sempre il caso di convocarne uno per «l’interlocuzione», altra parola ormai mitologica. Il «dialogo» è troppo plateale, meglio una eufemistica e tattica «interlocuzione» per arrivare a «un cambio di passo» e a un «punto di caduta». La politica è da decenni alta falegnameria: c’è un tavolo per tutto. Per fare un tavolo ci vuole l’utensileria, ma attenti a cosa scegliete: «apriscatole, trapano, ruspa, lanciafiamme» appartengono all’altra metà del cielo linguistico-politico, a quello aggressivo e scomposto, non a questa lingua di parole responsabili, tecniche e fatue. E non ne parliamo se invadiamo il campo dell’economia, spazio di un gergo ultra-specialistico e mediato: detto di Flat tax e due diligence, l’ex Ilva è un «asset strategico», lo Stato deve esercitare la «golden share» individuando i giusti «driver» e il «board», e poi ci sono l’ambiziosa «pace fiscale» e i rassicuranti «ristori», ma attenti al giudizio dei «Paesi frugali» e alla Legge di bilancio corretta da qualche «manina».
Il politichese, la delizia di tutti
Ecco, a proposito di manina: qui sconfiniamo nel politichese in senso puro, quello da manovrieri d’aula. Basta una crisi di governo o al Comune e vabbè, quella è l’apoteosi: tutti sopraffini strateghi e raffinati analisti d’altri tempi. Ci sono perciò le «fibrillazioni», «l’inciampo», la «spallata», la «verifica», gli «ultimatum», le «larghe intese», il «campo largo», «l’anatra zoppa», lo «strappo», il «misunderstanding», i «due forni», gli infaticabili «pontieri», il «rimpasto» e la tanto anelata «discontinuità». Distinguendo «falchi e colombe», e sulla zoologia ci sarebbe tanto da elencare, dalla «bestia» in poi.
Sulla lingua della politica al tempo del Covid servirebbe una pagina a sé, ma comunque tutti sono stati virologi e statistici: il «lockdown», i «cluster», il «droplet», il «contact tracing», il «plateau», il «distanziamento sociale», i Dpcm e i mitici «congiunti».
Specchio, farsa e melodramma
In generale: se la politica è specchio del Paese, e lo è, la lingua della politica allora interpreta la nostra attitudine naturale alla farsa e al melodramma, che sono lo strumento col quale addomestichiamo la realtà. E se tutto degenera, tranquilli: c’è sempre l’altra faccia della medaglia, le parole triviali e folcloristiche, la scena politica che diventa oscena, i «rosiconi» e i «gufi», la «mangiatoia» e «la pacchia è finita». Ed è finito anche questo pezzo che, bisogna ammetterlo, per chi ormai da un bel po’ scrive di politica è stato anche una forma di espiazione e di autodenuncia.
Leggi l'articolo completo suQuotidiano Di Puglia