Le nuove parole della politica/Il Pnrr da mettere a terra, ma attenti alla postura

Governanti, parlamentari, sindaci, assessori: si oscilla da un estremo all’altro. O il linguaggio “basso”, sguaiato e da social, oppure quello troppo alto, tecnico a tratti incomprensibile e colmo di espedienti retorici d’improvviso alla moda

Elaborazione fotografica di Max Frigione
Elaborazione fotografica di Max Frigione
di Francesco G. GIOFFREDI
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Domenica 12 Marzo 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 17:29

Non c’è via di mezzo e a questo punto forse nemmeno d’uscita. Da un estremo all’altro, come un pendolo impazzito: il linguaggio della politica è così, non conosce soluzioni intermedie. Oscilla ormai tra il bassissimo e l’apparentemente altissimo. Quindi: o il lessico sbracato, sguaiato, semplificato, da osteria social e da sfottò delle scuole medie, oppure quello oscuro, altisonante, imbevuto di tecnicismi e nuovi tic retorici, di parole tanto grandi, misteriose, affascinanti, manageriali e soprattutto troppo ricorrenti da essere alla fine solo attesa, pausa, rinvio, pretesto, “faremo” e “vedremo”. Le parole, in un caso e nell’altro e quando usate fino alla nausea (il segreto è sempre la giusta misura), alla fine degradano fino a diventare gusci vuoti ed evanescenti, le ascolti e sono solo fruscio di fondo. Se c’è una «cabina di regia» qualcosa vorrà pur dire e starà succedendo, o forse no ed è solo una supercazzola attendista, e allora pazienza, andiamo avanti. La politica, quando vuol dire tutto e sempre, alla fine non dice nulla.

Tra abitudine e moda

Fatta la premessa, veniamo al punto: non se ne può più. Di acronimi incomprensibili, di «Por» e «Lep», di anglicismi benintenzionati, di «due diligence» e di «deadline», dei dico-e-non-dico, di concetti usati come diversivo, dell’ampollosa e un po’ buffa retorica di parole che riempiranno pure il cuore e le insicurezze di chi le pronuncia, ma svuotano l’anima di chi ascolta o legge smarrito. Cosa diavolo sarà questa «Flat tax»? E perché mai, da destra a sinistra, hanno preso tutti una cocente sbandata per la «postura», dalla «postura internazionale», alla «postura ideologica»? Vai a capire. Ma del resto basta un «Pnrr da mettere a terra» (mai «realizzare»: ormai solo «mettere a terra»), una «piattaforma programmatica da rilanciare», una «mission da traguardare» e il gioco è fatto: anche il più naif dei deputati o il più sprovveduto degli assessori si sentirà lì, nell’olimpo degli statisti da Prima e Seconda Repubblica e dei grandi mandarini di Stato, o al limite nell’anticamera, perché così parlano “quelli importanti”, cosi decretano le “carte” dei ministeri e i tecnici degli assessorati, e così suggeriscono pure i ghostwriter, che ormai sono le tute blu della grande e rutilante fabbrica della comunicazione istituzionale e di partito.

Il difficile gioco della politica

La politica, nelle democrazie contemporanee, prova a esercitare la propria egemonia innanzitutto con le parole e col corpo del leader. E il potere, in un tempo così provvisorio e fugace, è prima di ogni cosa intrattenere e ammaliare l’elettore, raccontare una bella storia, fare la faccia giusta al momento giusto, sfoggiare la parola che arriva dritta al cuore o che confonde e stordisce con una ventata di burocratica complessità. C’è un lessico per tutto, in politica. Ce n’è uno per la campagna elettorale e per l’opposizione, quando si può esagerare, sbraitare, indignare e sognare. È lo «storytelling», ma anche questa è locuzione ormai usata e consunta, o la «narrazione», come evocava il poeta-presidente Nichi Vendola, o è soltanto il «populismo», cioè l’accusa che tutti fanno a tutti. E poi c’è un lessico per governare, quando i conti pubblici, l’Europa, i ministeri, le Agenzie, le Borse e il senso di realtà impongono paletti e limiti e obbligano al grigiore, all’attenzione, agli equilibri, ai toni curiali e in definitiva alla responsabilità. A proposito: «i responsabili» - segnatevi anche questo espediente retorico – a un certo punto di ogni Legislatura diventano in Parlamento la bombola d’ossigeno delle maggioranze in debito di numeri, ma banalmente i responsabili sono soltanto i deputati e senatori senza dio che corrono in soccorso del Potere di turno in difficoltà. D’altro canto – come disse con fulminante sarcasmo Francesco Cossiga riferendosi ai suoi “straccioni di Valmy”, portati a sostegno del governo D’Alema – «c’è sempre un’ala concretista»: altre parole, altro livello, altri tempi.
Ma tant’è. Persino i più incendiari e incazzati di tutti, cioè i cinque stelle, si sono subito abbandonati al sottile fascino della responsabilità: una volta al governo, hanno cambiato registro lessicale, dal “vaffanculo” elettorale in un batter d’ali si sono arresi a tutta la batteria di arzigogoli tecnici e in bello stile, per dichiarare senza dire, annunciare senza spiegare, come un qualsiasi deputato diccì di terza schiera degli anni ‘80. Solito trappolone, dalla Camera all’ultimo Consiglio comunale, da Nord a Sud, e ovunque stessa teatralizzazione vacua e ripetitiva. 

L'ossessione per gli acronimi

La coperta più rassicurante alla quale aggrapparsi, di recente, sono gli acronimi: fanno chic e impegnano il giusto. Sarà che a far crollare la diga è stato l’onnipresente Pnrr (test: senza il supporto di Google ricordate tutti per cosa sta?), ma fioriscono ovunque: i Lep nell’autonomia differenziata, il Pug nelle città che è anticipato dal Dpp, senza dimenticare – sempre a livello comunale – il Pums, il Peba e il Prt. C’è ovviamente il Rdc per i più poveri, ora il Mia, ma in Puglia era stato già varato il Red. Giù al porto invece a governare tutto ci pensa l’Adsp. E se c’è da spiegare al cittadino-elettore che qui nessuno sta a guardare e che perciò sarà catapultata una pioggia di risorse dall’Europa e dintorni, via con la mitragliata di sigle: Por, Fsc, Fse, Fesr, Pac, Psr, Cis, React Eu, Next Generation Eu. Non è uno scherzo: a ciascuna corrisponde una direttrice di finanziamento, di spesa e di governance. Ahi, sì, vero, ci siamo cascati: «governance», la parola-scudo per addolcire la pillola e nobilitare. Se tutto va a rotoli ed è fuori controllo, allora ricordate che bisogna «ridisegnare la governance» e sarà la svolta. Magari «spacchettando» le competenze. Il Pnrr, con tutte le sue ramificazioni e derivazioni, ha inaugurato una sorta di neo-lingua, ispirata dalla tecnocrazia di Bruxelles e che risulta sufficientemente grave e impegnata da conferire un tono solenne a tutti: un progetto, ormai, si può solo «mettere a terra», rispettando i «target», i «milestone», il «cronoprogramma» e il «documento programmatico». Male che vada, si può sempre acconciare un «masterplan»: il buon, vecchio piano è inflazionato, abusato, stropicciato e a furia di rimanere nei cassetti ha perso credibilità.

Ben gli sta.

C'è un tavolo per tutto e tutti

Di tutto e di più si può sempre discutere nell’immaginifica cabina di regia o al più tradizionale «tavolo»: nel dubbio, è sempre il caso di convocarne uno per «l’interlocuzione», altra parola ormai mitologica. Il «dialogo» è troppo plateale, meglio una eufemistica e tattica «interlocuzione» per arrivare a «un cambio di passo» e a un «punto di caduta». La politica è da decenni alta falegnameria: c’è un tavolo per tutto. Per fare un tavolo ci vuole l’utensileria, ma attenti a cosa scegliete: «apriscatole, trapano, ruspa, lanciafiamme» appartengono all’altra metà del cielo linguistico-politico, a quello aggressivo e scomposto, non a questa lingua di parole responsabili, tecniche e fatue. E non ne parliamo se invadiamo il campo dell’economia, spazio di un gergo ultra-specialistico e mediato: detto di Flat tax e due diligence, l’ex Ilva è un «asset strategico», lo Stato deve esercitare la «golden share» individuando i giusti «driver» e il «board», e poi ci sono l’ambiziosa «pace fiscale» e i rassicuranti «ristori», ma attenti al giudizio dei «Paesi frugali» e alla Legge di bilancio corretta da qualche «manina».

Il politichese, la delizia di tutti

Ecco, a proposito di manina: qui sconfiniamo nel politichese in senso puro, quello da manovrieri d’aula. Basta una crisi di governo o al Comune e vabbè, quella è l’apoteosi: tutti sopraffini strateghi e raffinati analisti d’altri tempi. Ci sono perciò le «fibrillazioni», «l’inciampo», la «spallata», la «verifica», gli «ultimatum», le «larghe intese», il «campo largo», «l’anatra zoppa», lo «strappo», il «misunderstanding», i «due forni», gli infaticabili «pontieri», il «rimpasto» e la tanto anelata «discontinuità». Distinguendo «falchi e colombe», e sulla zoologia ci sarebbe tanto da elencare, dalla «bestia» in poi. 
Sulla lingua della politica al tempo del Covid servirebbe una pagina a sé, ma comunque tutti sono stati virologi e statistici: il «lockdown», i «cluster», il «droplet», il «contact tracing», il «plateau», il «distanziamento sociale», i Dpcm e i mitici «congiunti».

Specchio, farsa e melodramma

In generale: se la politica è specchio del Paese, e lo è, la lingua della politica allora interpreta la nostra attitudine naturale alla farsa e al melodramma, che sono lo strumento col quale addomestichiamo la realtà. E se tutto degenera, tranquilli: c’è sempre l’altra faccia della medaglia, le parole triviali e folcloristiche, la scena politica che diventa oscena, i «rosiconi» e i «gufi», la «mangiatoia» e «la pacchia è finita». Ed è finito anche questo pezzo che, bisogna ammetterlo, per chi ormai da un bel po’ scrive di politica è stato anche una forma di espiazione e di autodenuncia.

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