«Emiliano pensi a far squadra invece di lanciare proclami»

«Emiliano pensi a far squadra invece di lanciare proclami»
di Francesco G. Gioffredi
5 Minuti di Lettura
Martedì 4 Agosto 2015, 12:17 - Ultimo aggiornamento: 15:54
Teresa Bellanova, sottosegretario al Lavoro, non ha dubbi: la mappa del governo, in tema di Mezzogiorno, ha destinazioni chiare. Ma l’inversione di rotta non è aggrappata soltanto alle scelte di Roma, assicura la deputata Pd. Provando peraltro a stanare il governatore pugliese Michele Emiliano, che in queste ore è il più vivace pungolo alle costole del premier: «Ma il Sud sa fare rete e sa su cosa puntare?».

Fin qui il Sud è sembrato ai margini dell’agenda del governo Renzi. Perché? Parlare solo di piagnisteo non è riduttivo?

«Renzi ha detto qualcosa in più di questo, che ha a che fare con un vizio endemico del nostro Paese, al Nord come al Sud, ma soprattutto al Sud. Ha detto: smettiamo di piangerci addosso, rimbocchiamoci le maniche. Intanto ha usato il “noi”, poi ha indicato un asse di marcia, che personalmente condivido totalmente: innanzitutto sbloccare i progetti incagliati per far capire che la musica è cambiata, poi riuscire a slegare il cofinanziamento del piano 2014-2020 dai paletti del Patto di Stabilità, almeno per quanto riguarda gli investimenti delle Regioni. Io sono una donna e una parlamentare del Sud, ma proprio per questo ricordo a tutti che il Sud, come il Nord, esiste 365 giorni l’anno, tutti gli anni. Le retoriche e i proclami sono a questo punto un cancro che personalmente mi rifiuto di alimentare. E mi chiedo se questo modo di discutere piuttosto di rappresentare una soluzione non costituisca invece parte del problema».

Ipotizzando delle vie d’uscita, l’istituzione di un ministero del Sud potrebbe aiutare?

«Non credo alle exit strategy, credo a un lavoro concreto e puntuale. Il punto non è né puramente economico, ancor meno tecnico. Il punto è politico. Il che significa una strategia capace di guardare complessivamente al sistema-paese e dentro questa cornice capire come agire su aree strutturalmente o congiunturalmente deboli. Esistono sacche di arretratezza anche al Centro o al Nord che hanno bisogno nello stesso modo di azioni concrete e mirate. Così come esistono eccellenze al Sud che non si arrendono al segno meno. Non so se un ministero sarebbe la soluzione, di certo so che quelle eccellenze sono una risorsa. Forse dovremmo essere più attenti a capire come hanno fatto a nascere e a svilupparsi. Una lezione sul campo che potrebbe rivelarsi molto interessante».

Intanto l’Agenzia della coesione non decolla. Eppure c’è un ricco tesoretto di risorse Ue da spendere: meglio una gestione centralizzata o continuare a lasciare libertà alle Regioni nella spesa?

«In molti, a proposito della autonomia di spesa delle Regioni, hanno stigmatizzato la cosiddetta autodichìa, quel meccanismo di sostanziale autoreferenzialità da cui scaturiscono distorsioni e aberrazioni evidenti. Non sono una neo centralista e sono convinta che dai territori vengano lezioni magistrali, ma ritengo che le risorse debbano essere investite entro una logica di sistema. Non possiamo avere una politica industriale regione per regione. Né possiamo pensare che una politica industriale si alimenti solo di bandi».

La spesa dei fondi europei su cosa andrebbe concentrata, a questo punto?

«Intanto bisognerebbe capire cosa hanno prodotto le programmazioni che si sono susseguite in questi anni e come sono stati costruiti i Programmi Operativi 2014-2020. Poi ricorderei un dato: le risorse straordinarie non possono essere impiegate alla stregua di risorse ordinarie; sono soldi dei cittadini italiani che l’Europa ci restituisce, peraltro in quota parte; sono finalizzate a ridurre i gap e non sono un bancomat per rendite di posizione. Da quello che leggo spesso vengono considerate regioni virtuose quelle che spendono meglio e in tempo. Ovviamente è fondamentale, significa aver allevato una burocrazia efficiente ed efficace. Una burocrazia efficiente ed efficace sostiene una buona politica. Ma se la politica manca, non c’è burocrazia che tenga. E la politica non si improvvisa. La Grecia ce lo insegna».

Svimez parla di rischio desertificazione industriale. Voi avete chiuso importanti vertenze per tenere in vita imprese al Sud. Ma forse non manca una organica politica industriale per il Sud? E da cosa passa?

«Ogni volta, apriamo i tavoli di vertenza sapendo che ci alzeremo solo quando siamo sicuri di aver portato a casa il risultato. Perché accada, ognuno deve fare il suo: imprese, parti sociali, governo. Non serve una politica industriale solo per il Sud. La politica industriale è del sistema-Paese e passa anche dalla gestione delle crisi, da parole d’ordine divenute una sorta di mantra: il lavoro e i lavoratori innanzitutto, tutela del lavoro e sostegno all’impresa. Al Nord come al Sud, ma soprattutto al Sud. Abbiamo invertito il paradigma: gli ammortizzatori sociali non possono condannare i lavoratori a restare indefinitamente fuori dal mercato del lavoro, in attesa della pensione. Devono essere funzionali a un rilancio dell’impresa e a un riassorbimento delle lavoratrici e dei lavoratori. Stiamo utilizzando tutti gli strumenti a disposizione, i contratti di solidarietà soprattutto: anche questa è politica industriale. Infine ricordo che l’impegno su Ilva è, dopo anni di assenza e di colpevoli silenzi, precisamente un pezzo di politica industriale di un Governo che pensa all’acciaio come a un asset fondamentale, scommettendo sulla possibilità di contemperare impresa e tutela della salute e salvaguardia dell’ambiente. Vorrei che anche le imprese lo facessero, allo stesso modo e con lo stesso coraggio».

Cosa potrebbe annunciare Renzi venerdì?

«Alcune anticipazioni sono già apparse. Immagino voglia sottolineare la necessità di cambiare decisamente passo: non rispetto all’ultimo anno, ma agli ultimi decenni. Personalmente vorrei però che il suo intervento si soffermasse anche su quello che al Sud funziona, fa scuola, ci viene invidiato. E che dobbiamo mettere assolutamente a valore: capitale sociale, capitale culturale, capitale immateriale. La domanda non è oziosa: siamo sicuri che sia sempre e solo responsabilità del Governo se le cose non vanno? Metto in guardia da un rischio: se è così, allora ha ragione chi sostiene la necessità di ricentralizzare le scelte. Oppure esistono responsabilità precise, Regione per Regione, governatore per governatore, classe dirigente per classe dirigente, corpi intermedi per corpi intermedi, su cui non è più possibile chiudere gli occhi: le tante difese d’ufficio sono francamente irritanti».

La crisi del Sud è legata anche a un problema di classe dirigente e di burocrazie?

«Sì. Non dappertutto e allo stesso modo, ovvio. Per questo mi piacerebbe che Emiliano, piuttosto che scatenare l’inferno, ponesse – anche sul tavolo della Conferenza Stato-Regioni – un problema di merito e uno di metodo. Il problema di metodo è: sanno le Regioni meridionali fare rete su progetti di grande respiro, infraregionali, aprendo su questo un confronto con il Governo? Quello di merito è: cosa vuole essere il Sud, su cosa vuole puntare, come vuole sostenere le sue eccellenze, i suoi tanti tesori? Questo Sud è capace di parlare con una voce sola? È capace di autorevolezza, di autorità? È capace di scommettere su se stesso? Le risorse, come vede, sono l’ultima cosa».
© RIPRODUZIONE RISERVATA