Berlino, il cielo sopra il muro che conquista i salentini

Berlino, il cielo sopra il muro che conquista i salentini
di Giorgia SALICANDRO
10 Minuti di Lettura
Domenica 8 Maggio 2016, 21:58

Dici Berlino, senti avventura. Una città “nuova”, in evoluzione costante, che da qualche anno rimette in moto il flusso dei salentini verso la Germania. Tra le grandi capitali europee, stando ai dati dell'Anagrafe italiani residenti all'estero, i numeri non sono quelli di Parigi o di Londra, la prima con 2583, la seconda con 2226 iscritti dalla provincia di Lecce.
Berlino ne ha “solo” 505, di cui 291 uomini, 214 donne. Il quadro si replica se si guarda alle tre province salentine nel loro complesso: prima Parigi, poi Londra, infine Berlino con 1159 iscritti.
Dici Berlino, senti “Muro”, dici Berlino, senti “Christian F.” e l'autobiografia di una generazione perduta tra i quartieri malfamati della città. Quella storia di separazione e marginalità, di una crescita - anche economica - frenata dalla Guerra Fredda, ha però saputo riscattarsi negli anni.
Gli affitti bassi - bassissimi se paragonati a Londra o Parigi - hanno attirato un intero popolo di artisti che qui ha trovato spazi adeguati per i propri atelier. Già da diversi anni, ormai, dici Berlino e senti “underground”, Kreuzberg, Friedrichshain, i quartieri trendy della città, Museumsinsel o l'Isola dei musei, patrimonio Unesco. Dici Berlino, e senti “techno”, la musica dai beat accelerati che ben rappresenta questo esperimento continuo di esistenze e progetti.
Un tempo, se non eri un operaio andavi a Berlino per fare il cameriere, il cuoco, il pizzaiolo. Oggi, anche i salentini sono coinvolti appieno nel cambiamento della città, e lavorano nell'arte e nella musica a vari livelli. C'è chi esporta le tradizioni, come il gruppo misto salentino-tedesco “I pizzicati”, ma anche chi fa il fonico, o il pr nell'industria del nightclubbing.
Ecco le storie di cinque salentini che hanno eletto Berlino a loro nuova patria.

Laura Serio
Graphic designer


«C'è cultura e lavoro, voglio restare qui»

Liceo artistico a Lecce, poi Storia dell'arte a Vienna e Comunicazione visiva a Roma, e ancora di corsa per l'Europa: in tutto, tre nazioni e sette città nel giro di pochi anni. Da Berlino, però, non è più andata via. «E non me ne andrò mai più», mette subito in chiaro Laura Serio. Per lei, che si sente stretta ovunque, questa città dal cuore ricucito è un incrocio di coordinate da cui poter abbracciare il mondo intero. Tutto quello che passa da qui: la cultura occidentale e la memoria dell'Est, un passato di esclusione dai giochi finanziari “che contano” e un presente smart, che ha saputo giocarsi le difficoltà in modo duttile. I berlinesi, spiega Laura, curano da sé le aiuole, se serve, ma si tengono stretta la casa, tant'è che il suo appartamento in centro le costa 500 euro al mese: impensabile per la “competitor” culturale Londra, ma ormai anche per l'Italia.
E poi, i berlinesi non si lasciano tener fuori dai luoghi della cultura. «Qui puoi vedere Puccini all'Opera con 12 euro e anche per i musicisti più pagati non spendi più di 20 o 30 euro: la cultura è davvero accessibile a tutti». Accessibile, ma con un'organizzazione rigorosa che si traduce anche in posti di lavoro. Come il suo alla Haus der Kulturen der Welt, dove dirige il reparto per la logistica del backstage, un piccolo universo per le esigenze degli artisti, di cui sono dotati moltissimi teatri in Germania.
Nel resto del tempo si divide tra il “lavoro del cuore” da graphic designer e la vita da mamma di un bimbo di sei anni, che la tiene “incollata” a Berlino al pari del suo animo creativo. «Certo che vorrei tornare a Lecce - dice - l'anno scorso ci ho provato, ma mi sono arresa perché venivo pagata un ottavo e in compenso avrei dovuto finanziare con una retta salata l'educazione montessoriana che volevo dare a mio figlio: in Germania un metodo simile è adottato dalla scuola statale».
Del resto, a Berlino lei si è sempre sentita a casa: «I berlinesi hanno un animo “fricchettone”, decisamente unico rispetto al resto dei tedeschi. Freddi? No, il fatto è che vorrebbero parlare nella loro lingua: spesso è questo il problema degli italiani che si esprimono in un cattivo tedesco, o in inglese».

Andreas De Blasi
Ristoratore


«Il cibo come scambio culturale»

Una laurea in Lingue straniere all'Università del Salento, un'esperienza di lungo corso nei ristoranti durante il weekend, per pagarsi gli studi. Eppure a portarlo a Berlino, nel 2006, non sono le lingue né il porto sicuro della ristorazione, ma il calcio. «Finita l'Università volevo andare fuori ma non sapevo bene dove, pensavo a Londra, poi un amico mi propose Berlino – racconta Andreas De Blasi, oggi 37 anni, originario di Tuglie - era il 2006, mi disse “dai, andiamo almeno per i Mondiali”. Quando arrivai fu uno schock, i primi giorni piovve ininterrottamente, però sentivo che c'era qualcosa di particolare in questa città». Non esclusi, gli affitti abbordabili e gli stipendi dignitosi, che gli permettono per andarsene in giro per concerti, tutt'altra storia rispetto a Londra.
Dopo un anno e mezzo a Berlino, una pausa di sette mesi per l'Australia, inseguendo i suoi interessi accademici, ma la città lo richiama prepotentemente a sé. «La sentivo nuova, neppure tanto “cool” come è diventata più tardi, si respirava creatività nella vita quotidiana». Il “Caligari”, il locale che oggi Andreas gestisce insieme a due soci, artisti italiani prestati alla ristorazione, è un po' il prodotto di questo percorso. E lui, l'esempio di una nuova generazione di “emigranti” colti, per i quali anche il cibo fa tutt'uno con lo scambio culturale.
Al ristorante - che deve il suo nome a un film degli anni '20 - i conterranei arrivano per ritrovare il luogo d'origine. I berlinesi, «un po' lenti nell'approccio ma autentici, e con una grande stima per l'Italia», spinti dal sogno, o dal ricordo, delle estati a Gallipoli e Lecce. E il racconto del Salento, in entrambi i casi, non manca mai.
Lo ritrova intatto, lui, il suo Salento, quando da casa arriva il grande pacco con i formaggi, le friselle, e poi il peperoncino e l'origano dall'orto di famiglia, che finiscono sui tavoli del Caligari. «Il mio sogno è, tra dieci o quindici anni, di tornare a casa – confessa Andreas - tutti me lo sconsigliano, però chi sa. Potrei fare come faccio qui: fondere le culture e le esperienze in fondo è la parte più interessante quando si lavora con il cibo».

Maria Chiara Provenzano
Dottoranda


«Capitale ideale per fare ricerca»

Dottorandi regolarmente retribuiti per tenere corsi, un bar vegano e biblioteche sconfinate come foreste: quando, lo scorso gennaio, Maria Chiara Provenzano è arrivata a Berlino, la Freie Universität le sembrava quasi un parco divertimenti. Trent'anni, di Tuglie, iscritta all'ultimo anno di dottorato in Letterature e filologie all'Università del Salento, è qui per svolgere le sue ricerche su Pier Maria Rosso di San Secondo. E sulle orme del drammaturgo, che visse a Berlino tra le due Guerre mondiali, Maria Chiara si perde nei cambiamenti della città.
Della Berlino contemporanea, invece, è lei a tracciare le proprie mappe, lungo un itinerario ideale che va dal mercatino della domenica di Mauer park, al teatro Maxim Gorki, al cinema Babylon, dove il sabato a mezzanotte proiettano film muti con l'accompagnamento dell'organo dal vivo.
La settimana trascorre tra le mura universitarie. Accoglienti, sì, «ma nei corridoi c'è silenzio – commenta – e si studia per compartimenti stagni». Cosa che le suggerisce che «se venisse ristrutturato, il sistema formativo italiano sarebbe uno dei migliori». Già: l'Università italiana. Maria Chiara il biglietto per il volo di ritorno lo ha già fatto, dato che a Berlino dovrebbe restare fino alla scadenza del semestre di mobilità. Ma le prospettive che la attendono in patria non sono proprio “da parco divertimenti”. «Non mi va di dover andare a caccia di un luogo in cui spendere la formazione che il mio Paese mi ha pagato, è un paradosso – commenta - non ho pensato di fuggire quando insegnavo Italiano in Francia né durante un periodo di studio a Siviglia. Però lo farei se fosse un'opportunità alternativa».
Intanto, Maria Chiara si guarda intorno, pesa il sistema universitario tedesco, in cui i dottorandi sono coinvolti dal mattino alla sera, a differenza dei colleghi italiani devono fare da assistenti ai docenti – non ufficiosamente, ma da regolare contratto – e se accettano di tenere lezioni, vengono retribuiti. Nella mente resta, tuttavia, il tarlo della vita nel suo Paese e il desiderio di fare ricerca lì dove avrebbe più senso, per lei che studia la letteratura italiana.


Federico Agnusdei
Manager


«È il centro del mondo ma mi manca il sole»

All'Università aveva studiato il fascino misterioso delle volute barocche, ma la laurea in Beni culturali gli aveva lasciato piuttosto una disposizione a inseguire l'estetica del nuovo e la creatività che si annida nelle esperienze. Ecco come, a distanza di qualche anno, ritroviamo a Berlino Federico Agnusdei, originario di Lizzano ma formatosi a Lecce, oggi diviso tra una vita da manager e il richiamo underground dell'heavy metal.
Nel mezzo, qualche esperienza professionale in Alto Adige, «praticamente già all'estero», un biglietto per Dublino e un primo esperimento di due anni in Irlanda. «Era giunto il momento di provare qualcosa di diverso, più mitteleuropeo – racconta – così nel 2014 mi sono trasferito a Berlino con la mia fidanzata Emma». Arriva nel pieno flusso ascendente dell'economia cittadina: cresce tutto, anche la socialità si trasforma, la startup di incontri online a cui presenta il suo curriculum si sta espandendo, e lui ci guadagna un posto da manager.
Intorno, i trasporti funzionano e in un lampo ti ritrovi da Charlottenburg - il quartiere in cui abita, nella zona ovest – agli ormai trendy Kreuzberg o Friedrichshain. Ma Federico preferisce lasciarsi attraversare dall'anima underground della città al chiuso di una piccola sala prove, dove suona heavy metal insieme a un batterista siciliano e a un chitarrista siriano.
La vita a Berlino, dice, non è mai noiosa, anche grazie alla sua atmosfera internazionale. Perché dover sentire a tutti i costi la mancanza di casa? «Non mi reputo un cervello in fuga o un expat – taglia corto Federico - ho sempre amato viaggiare e conoscere nuove realtà, andare via per me è stato un processo alquanto naturale, per nulla sofferto».
Però, nei lunghissimi inverni tra neve, ghiaccio e temperature da Polo Nord, il richiamo del sole torna a insinuarsi nella cupa estetica berlinese, sino a smussare qualche certezza da cosmopolita.
«Il sole, il mare, il cibo, i sorrisi delle persone, sono tutte cose introvabili qui e che in effetti ho imparato ad apprezzare pienamente solo dopo tutti questi anni vissuti fuori. Sì, a un certo punto del mio percorso di vita – ammette - sono certo di tornare giù in Puglia».


Flavio De Marco
Artista

«Attratto dallo spirito creativo della città»

Musei aperti di notte e un'intera “isola” dell'arte dichiarata Patrimonio dell'umanità, palazzi come immense tele dipinte, vernissage in cui può succedere di tutto: Berlino, magnete per gli spiriti creativi di tutta Europa. Ma Flavio De Marco, che l'arte la fa di mestiere, vivendo a Berlino ha imparato anche ad apprezzare il sistema che considera gli artisti come qualunque altra categoria professionale, con tasse e contributi da pagare, ma anche un'assicurazione sanitaria dedicata. Originario di Lecce, studia all'Accademia di Belle arti di Bologna, poi va a vivere a Roma e nel frattempo insegna a Brera ed espone alla Galleria nazionale d'arte moderna, all'Istituto italiano cultura a Londra, e ancora a Bologna, Berlino, Amsterdam. Ma in Italia, dice, l'artista porta addosso una lettera scarlatta, un marchio che sa di freak o gioventù perenne: «In Italia un artista non è considerato una figura che contribuisce a sviluppare l'immaginario sociale». Per questo non gli andava di restare.
Certo, a Berlino gli atelier a buon mercato – che costano qualche centinaio di euro, e non duemila euro di affitto al mese - danno un indirizzo e un “nome” a una comunità più vasta, e gli ortodossi della professione si ritrovano spesso accanto ai “poser” del pennello. Molti si gettano nella mischia e il livello può abbassarsi. Ma, del resto, è il prezzo da pagare.
Nel mare magnum della vita berlinese, il Salento non trova spazio nel territorio dell'identità e della nostalgia di casa. Semmai, in quello emotivo, “imprinting” che riaffiora di tanto in tanto sulla tela. Una serie di opere esposta nel 2010 alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia si chiamava, appunto, “Paesaggio con veduta (Lecce)”, e il paesaggio marino, più di ogni altro, insiste nel suo lavoro iconografico. Ma è un paesaggio turistico, da cartolina, filtrato dallo schermo di un computer, dallo sguardo proprio dell'era della comunicazione di massa. È questo, in fondo, ciò che gli resta del Salento: un Sud che non c'è, indagato piuttosto come “perdita”, che come appartenenza.



 

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