Crediti alle imprese con i fondi del Pnrr: anche l'Italia ha la sua “Ira”

Gli aiuti americani rischiano di desertificare il vecchio Continente. L’Ue marcia divisa. Ma adesso Roma ha un piano

Crediti alle imprese con i fondi del Pnrr: anche l'Italia ha la sua “Ira”
di Andrea Bassi
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Mercoledì 5 Luglio 2023, 13:14 - Ultimo aggiornamento: 7 Agosto, 08:43

C'è pure questo. L’America che copia l’Italia.

E soprattutto copia un meccanismo che ha dato, come ormai appurato, una fortissima spinta al settore delle costruzioni e al Pil, ma mettendo in serio pericolo i conti dello Stato. L’Irs, l’Agenzia delle entrate americana, nei giorni scorsi ha dato il suo assenso alla libera circolazione dei crediti fiscali che saranno generati dalle  imprese grazie all’Inflaction reduction act, il piano di aiuti da 370 miliardi di dollari (ormai lievitato a oltre 1.200 miliardi), con il quale gli States hanno deciso di affrontare la sfida della transizione green. Una sorta, insomma, di immenso “superbonus” all’italiana. L’America del resto se lo può permettere. Il dollaro resta il Re incontrastato delle valute. Le usuali trattative al cardiopalma sul tetto del debito per scongiurare i default non spaventano più nessuno. Sono vissute piuttosto come un rito consuetudinario. Ma la domanda è un’altra. Che effetti sta avendo l’Ira americana sul resto del mondo e, soprattutto, sull’Europa e sull’Italia? La teoria “dell’effetto farfalla” dice che un battito d’ali in Cina può scatenare un uragano a New York. Figurarsi un piano di aiuti alle imprese da trilioni di dollari cosa può causare.

GLI EFFETTI

Prendiamo Elon Musk, il più lesto come sempre a fiutare l’aria. A febbraio di quest’anno, poco dopo l’annuncio dell’Ira, Tesla ha deciso di sospendere la costruzione della più grande fabbrica europea di batterie vicino Berlino, annunciando che si sarebbe invece concentrata sul mercato statunitense. Ma anche Volkswagen ha previsto di espandersi negli Stati Uniti all’inizio del 2023 dirottando un investimento da 10 miliardi per la costruzione della seconda fabbrica di batterie. La Federazione delle imprese tedesche, la Bdi, in pratica la Confindustria teutonica, ha commissionato un’indagine tra i suoi associati per provare a sondare gli umori e le intenzioni. Il quadro che ne è emerso è nero. Il 16 per cento delle imprese sondate ha affermato di aver già avviato piani di delocalizzazione della produzione. Un altro 30 per cento sta valutando di seguirne l’esempio. «Quasi due terzi delle aziende intervistate considerano i prezzi dell’energia e delle materie prime tra le sfide più urgenti», ha dichiarato il presidente della Bdi Siegfried Russwurm. È evidente che le imprese non possono fare altro che spostarsi dove gas ed elettricità costano meno o dove ci sono incentivi dei governi che contengono i costi. E l’America da questo punto di vista è diventata una sorta di Eldorado. In Europa è scattato una sorta di «si salvi chi può». Ma non tutti possono. La Germania però sì. Ha un debito pubblico basso e può mettere mano alla cassa per sostenere le sue aziende. Non appena è scoppiata la guerra in Ucraina e si è materializzata la crisi energetica, Berlino è riuscita a mettere immediatamente sul piatto un piano di aiuti di ben 200 miliardi per le famiglie e le imprese tedesche. Anche per contrastare l’Ira americana potrebbe usare lo stesso schema. Ma ha bisogno che l’Europa la assecondi su una questione di fondamentale importanza: deve ammorbidire le regole sugli aiuti di Stato. Berlino ha i soldi, ma le servono mani libere per poter “aiutare” le sue imprese. Anche la Francia ha appoggiato questa linea. E l’Italia? Qui il discorso si fa più complesso. Roma non ha un bilancio capiente come quello tedesco. Anzi. Con il ritorno il prossimo anno delle regole del Patto di Stabilità e crescita sarà anche peggio. L’Italia insomma, ha bisogno che sia l’Europa a dare una mano e ad affrontare la sfida portata dall’Ira americana alle imprese del Vecchio Continente. La commissione europea ha presentato il 20 giugno una piattaforma, Step, per semplificare le procedure sullo stanziamento dei fondi che concede flessibilità per i settori strategici: era una richiesta che l’Italia aveva avanzato. Si tratta di una Piattaforma per le tecnologie strategiche per l’Europa (Step) per sostenere lo sviluppo, la produzione e il rafforzamento delle rispettive catene del valore nell’Unione delle tecnologie digitali, delle tecnologie pulite e delle biotecnologie. Step sarà finanziato con fondi già esistenti nel bilancio Ue più altri 10 miliardi di euro freschi con l’obiettivo di arrivare a mobilitare fino a 160 miliardi di euro di investimenti nei prossimi anni. Da dove arriveranno i soldi? Da programmi esistenti: InvestEU, Fondo per l’innovazione, Consiglio europeo per l’innovazione di Orizzonte Europa, Fondo europeo per la difesa, EU4Health, Europa digitale, incentivando ulteriori finanziamenti dal programma per la ripresa e resilienza (Recovery Fund) e fondi della politica di coesione. Basterà all’Italia? In realtà no. Anche perché la piattaforma Step allontana il progetto del “Fondo sovrano europeo” spinto dall’Italia ma frenato dai Paesi frugali e che avrebbe bisogno di nuovo debito comune dopo quello fatto con il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

IL PERCORSO

Dunque, almeno per ora, l’Italia non ha altra possibilità che attingere proprio ai fondi del Pnrr. Per questo la revisione del piano alla quale sta lavorando il ministro Raffaele Fitto, servirà a trovare fondi anche per fornire incentivi automatici alle imprese per la transizione green. È stato lo stesso ministro a spiegarlo all’interno della terza relazione al Parlamento sullo stato di attuazione del Piano di ripresa e resilienza. La rimodulazione dei progetti ai quali sta lavorando il governo, si legge nel testo consegnato al Parlamento, servirà anche a fornire «incentivi alle imprese per la transizione ecologica e digitale in risposta all’Ira». Il ragionamento è abbastanza semplice: i soldi vanno presi dove ci sono. E per adesso l’unico “salvadanaio” in possesso dell’Italia è quello dei 191,5 miliardi del Pnrr. Le misure “anti-Ira”, che saranno in pratica crediti d’imposta per la transizione 5.0 da riconoscere alle imprese, saranno inseriti nel nuovo capitolo del Pnrr, il cosiddetto RepowerEu. Di quanti soldi si tratta? Difficile ancora dirlo. Ma l’obiettivo sarebbe apportare al RepowerEu almeno una ventina di miliardi di euro. Non molto rispetto ai piani degli altri Paesi, ma abbastanza per non rimanere del tutto inermi. Il RepowerEu, insomma, sarà l’Ira dell’Italia.

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