Il curatore della mostra su Banksy: «Perché ha senso esporre le sue opere»

Il curatore della mostra su Banksy: «Perché ha senso esporre le sue opere»
di Alessandra LUPO
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Giovedì 13 Luglio 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 19:37

Circa un migliaio di visitatori in poco più di due settimane hanno affollato la mostra “Realismo Capitalista, Banksy: l’arte in assenza di utopie” allestita nello spazio espositivo delle Mura Urbiche a Lecce fino al prossimo 30 settembre.
Una collezione di circa cinquanta pezzi tra opere, materiali e documenti dello street artist britannico senza volto, curata da Antonelli & Marziani che ha anche attivato una serie di convenzioni che daranno diritto a biglietti ridotti tanto ai cittadini leccesi, quanto a studenti, docenti e personale dell’Università del Salento nononché ai turisti che atterreranno negli Aeroporti di Bari, Brindisi e Foggia nel periodo della mostra.
Stefano Antonelli, lei è uno dei maggiori esperti di Banksy al mondo nonché co-curatore della mostra allestita a Lecce fino al prossimo 30 settembre. Una mostra che ha registrato migliaia di visitatori in sole due settimane. Il mito di Banksy attira un’attenzione che sembra inesauribile. Come se lo spiega?
«La nostra mostra è stata vista da oltre un milione di persone nel mondo, questa di Lecce è la 25esima ed è la seconda mostra autorizzata dopo New York»
Nel caso di un artista anonimo che significa autorizzata?
«Diciamo che, al di là delle questioni che riguardano la proprietà intellettuale, chiunque può attivare un dispositivo analitico e critico su un artista. Tuttavia, trattandosi di un anonimo irraggiungibile. Per la mostra del 2016 iniziammo a scrivergli alla sua mail. E l’accordo che trovammo fu che la sarebbe stata indipendente e avremmo usato la formula unauthorized. Da allora, ogni volta che facciamo una mostra gli mandiamo il catalogo e loro lo approvato. Quindi adesso il nostro lavoro è di fatto approvato». 
Insieme a Gianluca Marziani seguite il percorso dell’artista da almeno 15 anni e nel corso del tempo avete accumulato una grande mole di opere ma anche di documenti, che di fatto permettono di approfondire il suo lavoro, sia da un punto di vista tecnico le evoluzioni espressive ma anche comunicative e in qualche modo politiche. Come descriverebbe il percorso di Banksy?
«Anzitutto bisogna partire dall’idea che l’arte contemporanea è diventata una forma di comunicazione globale che cerca di coinvolgere il pubblico in una esperienza collettiva e questo è propriamente il lavoro di Banksy. Come dice lui il suo lavoro si è evoluto “trasformando un episodio di vandalismo in un atto mediatico globale”. Con lui l’esperienza estetica è una forma di interazione sociale». 
Che nel tempo ha comunque subito un cambiamento. Di che tipo?
«Dimensionale: lui inizia a diffondere il suo messaggio nel quartiere, poi nell’intera Bristol, poi a Londra e alla fine nel mondo. Un’escalation di conquista dell’attenzione molto simile a quella pubblicitaria. D’altronde è l’unico artista le cui nuove opere diventano notizia in tutto il mondo. Una potenza mediatica superiore a un capo di stato. Questo potere incredibile ci dice che questo artista si evolve con l’evolversi della comunicazione e non del processo artistico. Tutto questo sfidando l’industria artistica tradizionale e tutte le sue convenzioni». 
L’anonimato è storicamente una delle più grandi strategie di marketing. Ma di fatto non avendo un volto può parlare a nome di tutti. Un antagonismo collettivo?
«L’anonimato crea curiosità e identificazione, si pensi alla scrittrice Elena Ferrante, al duo dei Daft Punk ecc. Ma l’anonimato di Banksy affonda le sue radici nei collettivi degli anni ‘80 come Luther Blisset oggi Wu Ming».
Crede che sia entrato in contatto con la realtà bolognese? 
«Era in contatto con Blu, il famoso writer parte del colletivo, quindi immagino di sì. Poi ci sono stati i movimenti Occupy Wall Street degli anni ‘90 e il Social Forum di Porto Alegre di cui il lavoro di Banksy sembra quasi una didascalia. L’idea di individualità entra in crisi e il collettivo diventa un megafono. Una delle idee alla base del suo lavoro è che chiunque è Banksy»
Il libro che avete curato per Giunti “Banksy. L’artista che si è fatto fantasma” è stato immediatamente ristampato e a breve sarà presentato anche in una serie di tappe pugliesi. Sfogliandolo si nota un grande sforzo di leggere l’opera di Banksy attraverso una chiave critica e storica. Eppure nel mondo dell’arte molte delle operazioni legate a Banksy vengono ritenute delle forzature rispetto alla natura stessa del suo lavoro. Vi siete sentiti rivolgere spesso obiezioni di questo tipo?
«Certo, la prima obiezione polemica è quella sociale ed è legata all’arte di strada che non si può musealizzare».
Non è d’accordo?
«In museo noi non proponiamo le sue opere bensì uno studio sull’artista. Anche perché Bansky travalica la dimensione artistica e entra in quella sociale. Fa parte di quei sette o otto artisti della storia che conosce anche il mio meccanico». 
C’è anche un problema legato al fatto di mercificare un’opera pubblica?
«Banksy è un artista che vive del suo lavoro e ha realizzato molte più opere per il mercato che per la strada. Queste opere sono una parte meno conosciuta della sua produzione ma esistono e vengono vendute anche a prezzi alti. L’altra critica poi è che Banksy non è un artista, ma un comunicatore, visto che nessun museo espone le sue opere ecc».
A questa come risponde?
«Che hanno le loro ragioni a pensarlo ma che sarà il tempo a dirci se sarà stato un Michelangelo o abbiamo tutti preso un abbaglio. Oggi è il più conosciuto del nostro tempo e non studiarlo sarebbe perdere un’occasione importante». 
Nel libro ci sono paragoni con i grandi artisti del passato. Come potremmo definire la sua figura?
«Un Goya più contemporaneo mescolato e un Picasso più politico, un Warhol più astuto e forse un Basquiat più malizioso, perché conosce le dinamiche del mercato. Credo che sia la figura che personifica tutte le sfide artistiche contemporanee». 
Nel libro si parla anche della sua identità. La svelate ma specificate che non importa a nessuno. 
«Nel libro riportiamo un’inchiesta del Mail on Sunday ma anche un paper della Queen Mary University che portano a Robin Gunningham di Bristol. Nella mostra a Glasgow degli ultimi tempi ha festeggiato i suoi 50 anni. Oggi vive a Los Angeles con moglie e figli. Ma lui non lo confermerà mai. E d’altronde non ci servirebbe a conoscerlo meglio». 
 

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