Il Fascismo, il Salento e l’amara disillusione

Il Fascismo, il Salento e l’amara disillusione
di Ettore BAMBI
9 Minuti di Lettura
Giovedì 27 Ottobre 2022, 05:00

Approda nelle librerie in queste ore, pubblicata dalle Edizioni Milella, la ristampa, aggiornata, della ricerca di Ettore Bambi “Stampa e società nel Salento fascista”, già pubblicata nel 1981 dall’editrice Lacaita.
Il libro sarà presentato a Lecce il prossimo 10 novembre alle 17.30 in un incontro con l’autore che si svolgerà nell’auditorium del Museo Castromediano. La serata sarà aperta dai saluti del direttore dell’Archivio di Stato di Lecce Donato Pasculli e della giornalista di Nuovo Quotidiano Francesca Sozzo componente del Consiglio regionale dei giornalisti di Puglia. Con l’autore dialogheranno poi Gigi De Luca, dirigente Cooperazione territoriale europea e Polibibliomuseali della Regione Puglia, Carlo Alberto Augieri delle Edizioni Milella e il rettore dell’Università del Salento Fabio Pollice. La manifestazione sarà introdotta da una selezione di filmati d’archivio dell’Istituto Luce e di fotografie del ventennio nel Salento della collezione Giuseppe Palumbo.
Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo alcuni stralci del libro che raccontano come sia stata vissuta la Marcia su Roma nella Provincia di Lecce, territorio all’epoca comprendente anche Brindisi e Taranto.


Dopo soli due mesi dalla conquista del potere, il fascismo salentino presenta già i segni della sua trasformazione, del suo innervamento nei costumi sociali precedenti: nel sistema dell’informazione liberale, questo verrà denunciato da qualcuno con sincera e reale voglia di rinnovamento, poi disillusa.
La Provincia di Lecce appare dall’inizio la più delusa della situazione, che definisce “scandalosa”: «...I due partiti che dovrebbero concordemente convergere allo stesso fine, si sono sanguinosamente combattuti; ciò dimostra all’evidenza come in essi non vibri la purezza dell’idea, ma soffi invece la passione o il rancore delle persone» (4 febbraio 1923) e, nel numero successivo, rincara la dose estendendo le accuse: «Se la violenza può giustificarsi come misura coercitiva di eccezione e in contingenze che la rendono dolorosamente necessaria, non può e non deve ammettersi che essa sia elevata a sistema, senza tornare di diversi secoli indietro... Quando vi sono fascisti che credono di esaurire il loro programma somministrando una forte dose di olio di ricino o bastonando chi possa avere una fede politica diversa, bisogna concludere che si impongono provvedimenti energetici per epurare il fascismo da elementi che lo disonorano... Non più dunque inni all’uso dei manganelli e del petrolio, non più imposizioni, non più minacce, non più risse, ma canzoni che esaltino la patria, inni all’aratro e alla vanga, al martello e all’incudine...».

 

L’articolo viene mal digerito dai fascisti locali, specialmente la frase «or non può revocarsi in dubbio che nei nostri fasci, tranne lodevoli eccezioni, hanno trovato posto, e qualche volta posti direttivi, gli sfruttatori di tutti i partiti» suscita dure reazioni; sarà lo stesso Guido Franco a organizzare una “lezione” al direttore della Provincia, Nicola Bernardini, cui sarà saccheggiata la casa e saranno rivolte pesanti minacce. L’autore dell’articolo, avvocato Verdesca, risponde sul giornale con una lettera amareggiata: «...E giacché l’occasione si presenta propizia, io voglio dire al mio collega Franco che egli deve più apprezzare i nostri rilievi, onestamente sentiti, che non il coro delle approvazioni vili e interessate, fatte da quella Bonomi, Nitti, Giolitti, Facta e che sarebbe disposta domani a sostenere quel partito, qualunque esso sia, a cui arridesse la fortuna». Il Segretario Provinciale replica sul Tallone d’Italia che queste parole «offendono la totalità o quasi dei fascisti nel Salento», ribadendo come la necessità di epurare fosse sentita anche nel Partito: «È falso intanto che i buoni fascisti sono lodevole eccezione. È vero il contrario: sono la maggioranza e l’eccezione è data dagli altri... Verso questi abbiamo già dato prova sufficiente d’essere senza pietà».
 

Ma i metodi fascisti hanno già prodotto, invece, risultati negativi. Pantaleo Verdesca, pur augurandosi che il fascismo di Terra d’Otranto «rinnovi la disgraziata provincia e sia esempio di purezza», conclude che «per servire la patria non è indispensabile essere iscritti in un determinato raggruppamento politico». E Nicola Bernardini dal canto suo: «Noi non crediamo che l’avvocato Franco, ripensando al modo come egli e un’altra ventina di fascisti vennero da noi per chiedere chiarimenti e spiegazioni sul periodo incriminato, possa dubitare che si sarebbero date le desiderate spiegazioni senza bisogno che qualcuno si fosse seduto e steso sul nostro scrittoio, senza bisogno di urli, di minacce di adoperare benzina e fuoco se il giornale non avesse mutato condotta... In quarant’anni di onorata vita giornalistica, siate certo avvocato Franco, che è la prima volta che ci capita che spiegazioni e chiarimenti ci siano chiesti nel modo da noi accennato» (4 marzo 1923). Qui è manifesta la delusione del vecchio liberale colpito nella sua sensibilità di giornalista e di uomo.
 

Un ottimo elemento per la comprensione del grado di fascistizzazione dei giornali nel fascismo, è indubbiamente la cronaca e il commento della celebrazione per l’anniversario della Marcia su Roma, la prima pietra per la costruzione culturale della Rivoluzione Fascista, la cui mitizzazione fu ordinata dal Regime che con essa dette il via alla gestione diretta delle coscienze, specie quelle contadine; tutto questo, tramite la neutralizzazione di molti termini-chiave del linguaggio politico prefascista, eliminati o sconvolti semanticamente e inseriti in un contorno “mistico” che mediava dalla letteratura e dalla metafisica il quadro di false costruzioni concettuali, mediazioni politiche efficacissime. Nel caso specifico, si doveva convincere che 1) l’accaduto era inevitabile sugello della sorte italiana, 2) aveva avuto un carattere di massa, 3) la sua forza era stata trascinante e inarrestabile; per ottenere questi risultati, si doveva creare il fatto servendosi delle parole, che divenivano esse stesse fatti e «fatti politicamente rilevanti».
 

Si studi questo esempio: «Or è un anno, il 28 ottobre 1922, centomila giovani, dalla robusta fede, guidata da una volontà eroica eccezionale, fremevano alle porte di Roma con la baldanza impetuosa dell’idea rinnovatrice... Contro una capitale, dove l’arbitrio aveva soppiantato la legge, in cui si decideva dei destini di un popolo di 40 milioni di abitanti, uscito vittorioso dalla guerra di redenzione propria e mondiale, insorse la giovinezza delle trincee. E di tutto l’ardire si armò questa folla meravigliosa, questo popolo percosso dagli eventi, umiliato dai governanti e giammai domo, per insorgere contro l’inettitudine dei santoni della politica demagogica e contro la folle indifferenza musulmana dei poteri ufficiali. La battaglia fu bellamente vinta».
 

«Volgiamo gli occhi della mente alla idealità dello sforzo sovrumano compiuto dai fascisti della primissima ora... Essi nulla chiedevano e tutto offrivano per questa idea, per questa mirabile fede, tutto, anche la propria vita. Bellezza ideale che solo la Patria di Dante può e sa dare all’ammirazione delle genti; virtù di sacrificio che non trova l’eguale se non nei primi moti del Risorgimento italiano (va notato lo sforzo per coinvolgere anche il lettore più distaccato, e l’accorgimento tipicamente fascista dell’appropriazione della storia italiana, n.d.a.). Livio inserisce lieto nella civile storia italiana questa audacia tenace tutta romana. Dante dice al Suo maestro che mai pensò una forma più squisitamente lirica di questo nuovo ardimento patriottico. Giuseppe Mazzini trova finalmente pace alla sua agitata anima d’Apostolo e d’Agitatore. Giuseppe Garibaldi proclama che non c’è soluzione di continuità tra la Rivoluzione dei suoi Mille leggendari e quella, ancora epica, dell’ottobre 1922. Francesco Crispi oggi finalmente esulta nella sua anima tanto grande quanto misconosciuta, perché ha trovato nello Spirito gemello di Benito Mussolini il suo degno continuatore. Noi ripetiamo con l’Eia di Buccari e l’Alalà di Fiume che le Camicie Rosse hanno iniziato la Rivoluzione nel nostro Risorgimento e le Camicie Nere l’hanno felicemente conclusa... Per Roma intangibile, che deve ritornare Caput Mundi». Umberto Cesi, “Gesta consacrate immortali”, in Il Tallone d’Italia del 21 ottobre 1923, dove è applicata la stereotipizzazione linguistica già diffusa sui quotidiani nazionali e diretta dai propagandisti del regime. Penetrata anche in provincia, essa trova un fertile terreno negli strati culturali piccolo-borghesi di periferia, tronfi di poter pronunciare grossi paroloni accompagnati da aggettivi ridondanti e da accademiche rievocazioni storiche; attecchirà ad esempio, come vedremo, sulla maggioranza della classe magistrale ex unionista.
 

Ancora: «Mossero da ogni città e ogni villaggio pellegrini dell’Ideale verso la città eterna, mossero cantando come a una festa, incuranti se oltre l’ultima casa del borgo natio fosse l’insidia. E marciarono sotto la pioggia accidiosa, artefici oscuri di un’epopea. Giovani i capi, quasi fanciulli ma in loro tutto il fascino del mito: non avevano l’asta dei conquistatori ma la fiaccola dell’ideale e sulla fronte limpida e gioconda la luminosità di una imminente vittoria. Passarono per l’agro sconsolato, ricalcarono le vie romane, sbiadite dall’erba, e vi ritrovarono la nostra tradizione. Una nuova libertà recavano a Roma: la libertà superba dell’essere italiani» (30 ottobre 1923).
 

Sempre in provincia, ancora a Galatina, uscì, nel luglio 1923 un settimanale curato dalla locale Associazione della Stampa, Il Gazzettino, 4 pagine spigliate di cronaca cittadina, note agricole, vignette, poesie e generici commenti ispirati a un «vogliamoci bene» comune, dichiaratamente apolitico ma volto solo all’elevazione morale e materiale del paese, almeno nelle intenzioni; eppure è opportuno riportare il commento del foglio alla commemorazione della Marcia su Roma (27 ottobre ‘23), in quanto non firmato, comparso su un giornaletto anonimo, letto probabilmente da pochi appassionati o amici, eppure perfettamente in linea, stilisticamente inappuntabile, concreto e incisivo: «...Non certo i venturi giudicheranno quella Marcia una semplice passeggiata perché quasi incruenta; i fatti storici non si misurano dalla quantità di sangue versato, ma dalle conseguenze che producono... Guardata da questo punto con occhio sereno, la Marcia su Roma appare certamente d’una grandiosità epica... (La Marcia) è stata il colpo di maglio che ha distrutto per sempre in Italia il governo multicolore e multisapore del secolo XX, materiato di democraticismo condito di comunismo, contorniato di popolarismo e impolverato di quel nittismo che premiava i disertori e schiaffeggiava i decorati...

Ma la Marcia su Roma spezzò tutto ciò; e i padreterni barbuti non capirono, stolti!, che quel leone dormiente che è il popolo s’era alla fine destato e ruggiva e s’avventava tremendo contro le sbarre della gabbia, ribelle, magnifico e poderoso... Il movimento fascista doveva necessariamente sfociare nella marcia su Roma, diversamente avrebbe fallito il suo scopo e tradito la sua stessa ragion d’essere. Se non l’avesse fatto avrebbe rinnovato l’errore del socialismo che, giunto a grande potenza, si contentò di bivaccare allegramente intorno alla fortezza ministeriale piuttosto che espugnarla e assumersi intera la responsabilità della ricostruzione del Paese...». È la costruzione ideale della rivoluzione, è l’inserimento del lettore a protagonista epico dell’era presente, sol perché italiano.
 

Nota: Ernesto Alvino ci ricordò che un mese dopo la marcia su Roma, la sede del Fascio di Lecce fu sommersa da migliaia di domande d’iscrizione che egli tendeva a respingere; Starace, però, arrivato a Lecce dopo la Marcia, legò subito con la borghesia del tabacco e ottenne nel novembre l’espulsione di Alvino. «Nulla di nuovo sotto il sole», ricordava quest’ultimo; e indicava nella figura di Salvatore Starace, fratello di Achille, il mediatore influente e occulto di un uomo «che non aveva letto niente e non aveva cultura».
 

2 – fine
 

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