Renato MORO
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Storia di Luciano, il partigiano che non voleva sparare

Storia di Luciano, il partigiano che non voleva sparare
di Renato MORO
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Lunedì 25 Aprile 2016, 03:12 - Ultimo aggiornamento: 09:08
Lo scorso anno ho avuto la fortuna di conoscere a Taranto il partigiano Luciano Marescotti. Ripropongo qui la sua storia. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------- CINQUE e dieci. Ogni volta che moriva ammazzato uno di loro, i soldati tedeschi fucilavano dieci italiani. Cinque se a morire era un fascista, quindi un italiano. C’era differenza anche in questo. E quando partivano i rastrellamenti, quando i bestioni della Wehrmacht cominciavano a muoversi con i mitra spianati e urlavano e sfondavano le porte di legno, quando gli ordini e le urla si sovrapponevano nel silenzio e nel buio della notte, quando pregavi che non toccasse a te e pensavi a chi sarebbe stato preso e portato nella campagna e fucilato, allora la paura ti gelava il sangue. Al partigiano Luciano Marescotti, 94 anni, Resistenza nella sua Voltana e una vita trascorsa a Taranto, il sangue è gelato più volte nelle vene. Tutte le volte che per sfuggire ai tedeschi s’infilava col suo papà in quella botola nascosta sotto il comò, in camera da letto. Ricorda tutto il partigiano Luciano. Tutto come fosse ieri e ancora oggi, accompagnato dal figlio Alessandro, va di scuola in scuola a raccontare. Così come, lui scolaro di otto anni, un soldato garibaldino fece entrando nell’aula della sua scuola nella campagne di Ravenna in quel giorno di primavera del ’29. «Era venuto con la camicia rossa - dice - noi restammo lì, a bocca aperta, incantati dal suo racconto. E ci parlava dell’Italia, della guerra, di Garibaldi e del re...». Ora a bocca aperta restano i ragazzi che hanno la fortuna di scegliere tra le sue parole e la tastiera di Google su cui digitare la parola “Resistenza”. La mamma del partigiano Marescotti, la signora Pierina, andava a dormire presto la sera. Molto presto perché la sveglia suonava alle due della notte. A quell’ora si alzava, dava un’occhiata al marito e ai figli che dormivano e nel buio s’avvicinava alla finestra. E restava lì, attenta ai rumori che giungevano dalla strada. Sapeva che i tedeschi organizzavano i rastrellamenti tra le due e le quattro, li sentiva quando fermavano i camion e scendevano calpestando il selciato della piazza, quando correvano per schierarsi ai posti di blocco e quando gli ufficiali ordinavano le truppe. Lei allora svegliava i suoi amori e loro in pochi secondi sparivano. Il fratello di Luciano, più piccolo di un anno, fuggiva nelle campagne per raggiungere i suoi amici, tutti partigiani, il grande di casa e il suo papà s’infilavano in quella botola che è stata la loro salvezza per dieci, cento e più volte. Zitti, pronti a fuggire da un’uscita segreta che dava nel porcile. E lì aspettavano che i tedeschi finissero il loro lavoro. Mamma Pierina sapeva come trattare gli invasori: mai una risposta fuori luogo, mai un insulto, mai uno scatto di impazienza. Anzi, trattava come figli quelli che sembravano più buoni, perché si poteva essere buoni anche con addosso la divisa della Wehrmacht. Perché anche nelle truppe del Führer c’era chi non voleva fare la guerra, chi pensava alla casa e alla sua famiglia nel paese. Pianse, mamma Pierina, quando dalle parti di Ravenna un soldato tedesco, poco più che un bambino, si lanciò sotto un carro armato alleato dopo essersi imbottito di esplosivo. Morì dilaniato. Quella era la sua guerra e lui ci credeva. Stava dalla parte sbagliata, ma ci credeva. «Con un soldato tedesco in particolare - racconta il partigiano Marescotti - eravamo in buoni rapporti. Quando veniva in casa per i controlli si fermava a parlare, qualche volta ci ha portato del cibo. Si chiamava Leo. Sai quante volte ha aiutato gli abitanti di Voltana? Tra quelli c’era mio cugino Giuseppe, anche lui partigiano. Solo dopo la guerra Leo ha saputo la verità. “Lo sai?, gli dissero, lo sai che le persone che hai aiutato tante volte erano dei partigiani?”. Non lo sapeva. Siamo diventati amici, tante volte lui è tornato in Romagna con la moglie e la roulotte». Alle 8 di mattina del 25 aprile 1945 il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia lanciò per radio l’appello all’insurrezione nelle province italiane ancora occupate dai nazifascisti. Fu la mobilitazione generale e anche la Brigata Garibaldi, di cui Luciano faceva parte, si diede da fare. «Era la Liberazione, era la fine della guerra - racconta Marescotti - ma non pensare che fu un’esplosione di gioia. Ne avevo visto tante, ne avevamo viste tante. C’è voluto del tempo per dimenticare». Macerie nell’anima e macerie nelle strade. «I tedeschi prima di andar via - racconta -, prima di attraversare il fiume, fecero saltare in aria le nostre case. Non rimase un solo tetto a Voltana. E tagliarono anche tutte le cime degli alberi per non aver impedimenti alla vista». Luciano Marescotti indossò anche la divisa dell’esercito del re e di Mussolini. Era un giovanissimo ufficiale quando, nel tardo pomeriggio dell’8 settembre del ’43, la radio interruppe le trasmissioni per dare voce al maresciallo Badoglio. Fu lui ad annunciare l’armistizio, mentre la Real Casa Savoia preparava le valige in vista della fuga a Brindisi. Fine delle ostilità contro gli angloamericani, fine dell’alleanza con i tedeschi. E benvenuti in un nuovo inferno, che per migliaia di soldati italiani ha avuto il colore e la puzza dei vagoni diretti ai campi di lavoro. Se lo ricorda quell’8 settembre il partigiano Marescotti. Eccome. «Ero in una caserma a Cremona - racconta -. Il giorno prima era venuta mia mamma, ormai si sapeva che da un momento all’altro ci sarebbe stata la resa e lei venne fin lì per prendermi. Aveva con sé degli abiti civili. Mi disse: “indossali e vieni con me”. Ma io le risposi di no, non volevo abbandonare i miei compagni e poi mancavano poche settimane alla fine del servizio militare. Non potevo rischiare di essere arrestato per diserzione. Così rimasi in caserma e il giorno dopo accadde di tutto. All’annuncio dell’armistizio ci mettemmo a ballare. Ci guardavano - aggiunge Luciano - e ci chiedevano: “ma come, avete perso la guerra e ballate?”. Sì, ballavamo ». Poi vennero i tedeschi a circondare la caserma di Marescotti e le altre, poi i tedeschi cominciarono a sparare contro i nuovi nemici e i muri cominciarono a tremare. «Un terremoto - riprende Luciano -, c’erano cinque caserme a Cremona, ne rimasero in piedi solo due. Una era la mia. Io mi ero riparato in una stanza, sotto un tavolo. Avevo lasciato il fucile a mezzo metro da me, quel tanto che sarebbe bastato per non farmi sparare dai tedeschi se fossero entrati, e quel tanto che sarebbe bastato per non farmi accusare di abbandono di arma se fosse entrato un mio superiore». Poi venne un gigante tedesco, armato di mitra e con un borsone. Prese il fucile di Luciano mentre lui era immobile a terra. Tolse l’otturatore e lo mise nel borsone, poi prese l’arma e ruppe il calcio sbattendolo contro il pavimento. «Poche ore dopo - racconta il partigiano -, eravamo tutti radunati in una piazza, disarmati. I tedeschi ci tenevano d’occhio con i mitra spianati. Eravamo destinati ad essere deportati in Germania. Tutti finirono lì e in tanti non sono più tornati, ma io e qualcun altro ci salvammo. Vidi una donna che dall’angolo della strada mi invitava ad andare da lei. Riuscii a scappare e la seguii fino a casa sua. Lì mi diede dei vestiti da civile. “Mettili - mi disse - sono di mio figlio. Spero solo che qualcun altro in questo momento stia facendo la stessa cosa con lui”. Mi cambiai e fuggii. Quella donna mi ha salvato la vita». Migliaia di soldati, in quei giorni, fuggirono per tornare a casa. E quando furono a casa in tanti si unirono alle brigate partigiane. Luciano è stato nei Sap, Squadra di azione partigiana. «Non mi è mai piaciuto sparare. Non mi è mai piaciuta la guerra - dice -. Dopo quel 25 aprile sono successe tante cose brutte». C’erano morti da tutte le parti, vendette, agguati. «Un giorno - racconta Luciano Marescotti - una sentinella tedesca scoprì mia zia che usciva da casa con due tazzoni di latte. Stava andando nel rifugio che i partigiani avevano costruito nel fienile. Successe l’iradiddio. Il soldato cominciò a urlare, capì che quei due tazzoni erano per dei clandestini e chiamò i rinforzi. Prima che arrivassero le SS, però, mio cugino e un suo compagno, che erano nascosti nel rifugio, riuscirono a fuggire e mia zia riuscì a portar via le armi e le bombe. Raccontammo ai nazisti che nel fienile c’eravamo io e mio fratello e che stavamo lavorando. Mio padre ci accompagnò dal capo dei fascisti di Voltana e lui raccolse la testimonianza. Forse ci credette per davvero, forse non credette ma lasciò perdere facendo finta di credere. A ridosso del 25 aprile, quando cominciarono le vendette, quel fascista che ci aveva dato una mano fu salvato. Si chiamava Marcello Cricca ». Il dopoguerra, la ricostruzione e il boom economico portarono Lorenzo Marescotti a Taranto. «La scuola aveva bisogno di insegnanti e nel ’56 - racconta il partigiano - io e mia moglie ci trasferimmo qui in Puglia. Fu un colpo di fulmine ». Non c’erano le ciminiere dell’acciaieria e il mare e il cielo di Taranto erano uno spettacolo che catturava l’anima. «Mia moglie, Fiorenza, s’è subito innamorata di questa terra e qui siamo rimasti». Lei, nella sua Lugo di Romagna, aveva vissuto i disastri della guerra ad una decina di chilometri dalla casa e dal rifugio di Luciano. Quando i loro occhi si incontrarono non si lasciarono più. «Le donne, le donne - dice Luciano - sono state il motore della Resistenza. Senza di loro non ce l’avremmo fatta. Ricordo una ragazza di 20 anni, Nara Martini, che una notte andò in bicicletta fino al lido di Ravenna. Doveva prendere in consegna un personaggio importante, forse un ebreo, che giungeva dal mare. Brava. Erano tutte brave le nostre donne». Quando anche l’ultimo cannone smise di sparare i ragazzi della Resistenza ripresero pian piano a vivere una vita normale. «A me - racconta Marescotti - piaceva ballare. Ovunque si faceva festa, da tutte le parti si ballava». Vennero il Referendum, la Repubblica, la Costituzione, il primo capo dello Stato e il primo governo. E cento, mille e più balere dove alla luce di poche lampadine colorate si ballava riassaporando, o assaporando, la libertà. «Libertà, che bella parola - chiude il partigiano Marescotti -. Ma attenti, la libertà è come il cavallo». Cavallo? «Sì come il cavallo. Va curata, accudita ».
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