Benedetta Tobagi, il suo libro ha avuto un successo enorme.
«Sì, devo dire che questo libro ha superato le mie aspettative. La sorpresa assoluta è stata il Campiello che nemmeno l’editore si sarebbe immaginato e che ne ha prolungato la vita. La cosa che mi ha fatto piacere è che ha trovato tanti lettori che hanno sentito la sua coralità e hanno apprezzato il fatto che esplorasse gli aspetti umani ed esistenziali della scelta della resistenza femminile».
«Sì, nonostante il lungo lavoro preparatorio la coincidenza ha voluto che uscisse due anni fa, quando era scoppiata di nuovo la guerra in Europa e si assisteva al rafforzamento delle destre al governo. Tutti fattori che hanno creato una nuova curiosità e attenzione nei confronti della Resistenza oltre al fatto che la questione femminile che a causa della escalation di violenze e femminicidi degli ultimi anni prende sempre più spazio nel dibattito pubblico».
«Devo molto a Barbara Berruti, direttrice dell'Istituto piemontese per la storia della Resistenza. Tutto è partito dall’archivio fotografico e Barbara mi ha poi accompagnata nella ricerca iconografica attorno alle immagini negli archivi di tutta Italia».
«A me interessava andare oltre la dicotomia tra la donna angelo del focolare e sprezzante del pericolo nei combattimenti facendo conoscere anche modelli di donne apparentemente più conformi a quello tradizionale, il modello materno ad esempio, capace di trasformare il maternage in un gesto politico. Oppure ci sono donne che pur facendo scelte radicali e di estremo coraggio oltre che di rottura rispetto ai codici di comportamento vissero lacerazioni e tormenti personali: è la grande varietà delle esperienze che mi incantava».
«C’è anzitutto un dato storico che va oltre al percezione soggettiva: cioè che la principale organizzazione resistenziale femminile, i “Gruppi di Difesa della Donna”, un’organizzazione trasversale tra le varie forze politiche della resistenza videro le donne darsi un programma politico avanzatissimo per l’epoca. L’obiettivo era coinvolgerle nella guerra di liberazione facendole partecipare “coscientemente”, che è una specifica importante visto che le donne non solo erano considerate inferiori ma non erano mai coinvolte nei processi di partecipazione alla politica o decisionali. Ma l’obiettivo successivo era di portare la donna su un piano di parità giuridica, politica e sociale con l’uomo. Per cui dal punto di vista storico lì si pianta il seme del percorso di emancipazione che poi continuerà. Anche se non ci saranno ancora le tematiche del femminismo propriamente detto è molto interessante perché dal racconto di queste donne, che spesso non sono particolarmente colte e preparare, emergono alcune tematiche che poi diventeranno quelle dell’autocoscienza e in seguito del femminismo: il rapporto con il corpo, il significato della maternità e così via».
«Questo è stato un tema importante venuto fuori da queste ricerche e non ha riguardato solo il Sud. C’era un pregiudizio morale nei confronti delle partigiane, che venivano accusate di essere state troppo a contatto con gli uomini della Resistenza. Per le donne perdere la reputazione era la morte civile. C’era una partigiana della provincia piemontese che diceva: “Magari in una grande città avrei trovato marito ma qui ero quella che aveva sempre la polizia in casa”. Molti lettori mi hanno detto di aver scoperto che la mamma o la nonna erano partigiane solo dopo la loro morte. Solo il lavoro delle studiose che andarono a cercare queste donne come fonti le ha aiutate a capire che il loro racconto non era da nascondere ma finalmente poteva essere consegnato alla memoria collettiva».
«Il libro parte dal Sud, ci ho tenuto a farlo perché per forza di cose viene spesso tagliato fuori dalla Resistenza. Ma l’esperienza di Barletta, quella del Porto di Bari o la figura di Lenuccia, icona della quattro giornate di Napoli ci raccontano invece di un Sud che è stato da subito battagliero e che rompe la visione stereotipata del nostro meridione».