Intervista a De Cataldo: «Taranto? Una città un po’ sonnolenta colonizzata per decenni. Ma ora deve essere risarcita»

Intervista a De Cataldo: «Taranto? Una città un po’ sonnolenta colonizzata per decenni. Ma ora deve essere risarcita»
di Alessio PIGNATELLI
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Sabato 18 Maggio 2024, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 06:49

«C’è stato un riconoscimento formale ma direi non sostanziale. La partita Ilva è ancora aperta, non si è risolta né sotto il profilo della salute, né sotto il profilo del lavoro. Insomma, è una situazione tutt’altro che definita. Sospesa».

Giancarlo De Cataldo non ha bisogno di molte presentazioni. Ex magistrato, scrittore, sceneggiatore e drammaturgo italiano. E tarantino. Già perché sessantotto anni fa fu proprio la città dei due mari a dargli i natali. Uno dei suoi capolavori è “Romanzo criminale”, dal quale sono nati film e serie tv. E dove si trova un passaggio quasi profetico. Non si parla di Taranto sia chiaro ma è come se quella descrizione cristallizzasse la città: “Era uno strano maggio. Triste. In una città sospesa in un’angoscia insonorizzata, come sotto una nevicata di polistirolo”.

De Cataldo, Taranto è una città sospesa da decenni. Può davvero esserci una riconversione che vada oltre la monocultura industriale?

«Il ragionamento dal mio punto di vista è molto semplice: Taranto ha garantito una produzione elevata dell’acciaio, questa è stata considerata un’industria strategica a livello nazionale anche quando è passata in mani private perché la siderurgia è comunque uno degli asset principali del Paese. Taranto ha pagato e continua a pagare prezzi enormi in termini di salute, visibilità e ambiente. Qualunque discorso si voglia fare per il futuro passa da un risarcimento, da un riconoscimento totale di una città che è stata violentata in qualche modo dall’abuso della cultura industriale».

Cesare Brandi, uno dei maggiori critici e storici dell'arte, amava questa terra più di ogni altra. Nel 1977 scrisse: «È una città che posta in un sito singolarissimo, potrebbe essere stupenda: e invece è squallida». Esagerò?

«Era, paradossalmente, una carezza affettuosa. Gli indifferenti avrebbero detto che la città ha i suoi problemi, amen. Con indifferenza. Chi invece è innamorato, si dispera per le occasioni perdute. Noi non dobbiamo dimenticare una cosa, però».

Quale?

«Siamo meridionali e fondamentalmente siamo dissipatori per vocazione. Questa dissipazione bisogna controllarla ma dobbiamo sapere che ci facciamo il conto ogni giorno»

Questo dobbiamo metterlo in conto per ricominciare, giusto?

«Per ricominciare servono innanzitutto tanti quattrini, parte di questi non può che provenire dal pubblico. Poi tutte le idee messe in campo mi sembrano buone anche perché il territorio ha delle enormi potenzialità a livello culturale. Ma i problemi restano. Taranto è lontano dalle rotte del turismo. Taranto è difficile da raggiungere per i trasporti. Le comunicazioni si fermano a Bari. Non abbiamo goduto di questo boom del turismo vip del Salento. Abbiamo un’interessante propensione al cinema ma tutto questo non ha generato un sistema. Taranto ha prodotto dei grandi artisti, delle intelligenze culturali ma non un’imprenditoria che voglia rischiare di investire della città. È stato il grande buco nero dell'acciaio. Tutto questo è stato vissuto come una vera e propria colonizzazione durante la quale sono state riservate delle briciole agli indigeni».

Insomma, anche il processo culturale ha bisogno di un’industria a supporto?

«L’Italsider a suo tempo non fu impiantata come una cattedrale nel deserto.

All’epoca Taranto aveva già una vocazione industriale perché era la città dei cantieri navali, di ferro, di produzione: non era solo la cittadella dell’ufficiale di Marina che passeggiava in centro al corso come raccontava la vulgata generale. Il problema è che il salto industriale non è stato fatto dal territorio, non c’è mai stata un’imprenditoria. Ora se vogliamo pensare a una riconversione culturale serve comunque un'industria della cultura. E serve una sorta di Pnrr tarantino specifico che dovrebbe passare dalla chiusura dell’Ilva e dall’implementazione dell’offerta lavorativa per chi quell’occupazione la perderebbe. Senza una fase di massiccio investimento non si va da nessuna parte e non si riesce a creare quel cambiamento».

In “Acido fenico” e “Terroni” dipinge la sua terra di anni passati, l’epoca Cito e le guerre di mala: come e quanto è cambiata oggi?

«Quel livello di violenza dell’epoca dei Modeo non c’è, però devo dire che la borghesia tarantina è rimasta immutata. Se non ci fosse quel grande elefante dell’Ilva nell’armadio, non sarebbe molto diversa da tante altre province sonnolente. Ora non c’è nemmeno l’alibi della violenza. Da piccolo ricordo che c’era chi diceva che quella determinata spiaggia bisognava lasciarla riservata altrimenti sarebbero arrivati i delinquenti. C’era questo alibi che consentiva alla borghesia di arroccarsi nelle sue cittadelle e di disinteressarsi di tutto il resto: il doppio assedio, delinquenti in strada e operai in fabbrica. Questo ha impedito il formarsi di un circuito virtuoso tra fabbrica e città che non si potrà mai riprendere. Ora bisogna guardare al futuro».

Nel dossier “Taranto capitale della cultura 2022” disse che siamo una specie migrante. Ma siamo anche una specie ritornante ed è necessario essere uniti per il riscatto di Taranto.

«La responsabilità di chi è andato via è di aver abbandonato il campo. Io sono voluto andare via e l’ho sempre rivendicato. Così come ogni volta che mi hanno chiesto di dare una mano, ho risposto positivamente ma non mi sono mai inventato e non mi invento una identità tarantina che quei in questi anni si è costruita in un altro modo. Tocca a chi è rimasto sul territorio e ce ne sono tanti di operatori culturali di grande livello. Palazzina Laf non è solo un grande film di un attore e regista notevole del nostro cinema. È il segnale, la speranza che anche un ragazzo di due generazioni sotto la mia può raccontare la città. È molto importante».

Ha in mente di venire a Taranto a breve?

«Non è escluso, non so quando. Ma non è escluso, diciamo. C’è qualcosa che bolle in pentola ma ancora non glielo riesco a dire con certezza. È qualcosa che riguarda il settore dei libri, vediamo».

Possiamo chiudere con il mantra di Riondino e con il messaggio dell’arcivescovo Miniero “basta lamentele, diamoci da fare”?

«Sì, non aspettiamo ma da soli è difficile farcela. Bisogna entrare in quest’ottica altrimenti restano solo proclamazioni».

Con un aiuto, allora.

«No, non è un aiuto. È un doveroso risarcimento».

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