Spazio, da Napoli andata e ritorno: ecco Irene la prima capsula con scudo termico dispiegabile

Spazio, da Napoli andata e ritorno: ecco Irene la prima capsula con scudo termico dispiegabile
di Mattia Ronsisvalle
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Mercoledì 14 Dicembre 2022, 15:47 - Ultimo aggiornamento: 6 Aprile, 15:11

Non è proprio la prima cosa che viene in mente se uno pensa a Napoli.

Eppure l’antica Partenope ha un cuore tecnologico che batte forte nel mondo, o meglio nello spazio, ben oltre le solite cartoline stereotipate di pizza, Vesuvio e Maradona. «Napoli ha avuto il merito di lanciare la prima capsula con scudo termico dispiegabile nel mondo. È stata la prima missione di questa tipologia perché la Nasa non ha avuto il successo che abbiamo avuto noi», spiega l’ingegnere Francesco Punzo, direttore tecnico della società consortile Ali Scarl - Aerospace Laboratory for Innovative components. Eccellenza nel settore aerospaziale, dunque, studiata anche dagli scienziati e ingegneri che si trovano dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, negli Stati Uniti, ma anche nella vicina Parigi, a San Pietroburgo e a Dubai.

L’IDEA

Cominciamo dal principio. Tutto inizia nel 2010 con l’idea di dar vita ad una tecnologia rivoluzionaria: Irene, acronimo di “Italian Re-entry NacellE” (navicella di rientro italiana, ndr). Si tratta di un’innovativa capsula che utilizza uno scudo termico dispiegabile ad ombrello che le permette di rientrare dallo spazio recuperando l’esperimento scientifico che è al suo interno. È all’avanguardia sia per il meccanismo di apertura sia per i materiali reperibili facilmente e a basso prezzo utilizzati per lo scudo termico. Già, lo scudo termico, ma che cos’è? «È come un ombrellone da spiaggia – spiega Punzo - che apriamo per ripararci dal calore del sole. Nello spazio lo scudo termico ha la stessa funzione: riparare la capsula durante il rientro dall’attrito con l’atmosfera che brucerebbe la capsula stessa. Avendo lo scudo termico ad ombrello, riusciamo a tenere il satellite “al fresco” ed è possibile quindi arrivare a terra con la capsula ancora “viva”». Dal 2010 il progetto è finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa), oltre a Miur e Mise.

Tra i protagonisti anche la società consortile Ali Scarl, con sede a Gianturco (nell’area est di Napoli) e le sue tre consorziate Euro.Soft, Lead Tech, Srs Ed, il Cira (Centro Italiano Ricerche Aerospaziali) che si trova a Capua. Infine, il Dac (Distretto Aerospaziale Campano), l’Università Federico II di Napoli, la Regione Campania ed il sistema bancario regionale che hanno supportato il progetto.

IL PROBLEMA

Nel 2011 il generale William Shelton, all’epoca comandante dell’aviazione statunitense, segnalò che la spazzatura spaziale fosse un problema da risolvere al più presto per gli effetti che avrebbe comportato nel corso del tempo. Con il termine “Space Debris” si intende tutto l’insieme di pezzi di lanciatori o di satelliti che hanno finito la loro missione e che continuano ad orbitare nello spazio, attorno alla Terra. Ma anche vernici, polveri, materiale espulso dai motori dei razzi. Il pericolo maggiore è quando i satelliti a fine vita non sono nelle orbite morte, provocando così scontri o incidenti con altri satelliti. Sembra assurdo pensare che l’orbita terrestre e lo spazio possano diventare una grande discarica ma ciò accade perché ci sono delle normative da seguire e perché non sempre si riescono a prevedere le orbite dei satelliti post missione: in alcuni casi l’atmosfera terreste li attira e a contatto con l’atmosfera si bruciano mentre altri sono indirizzati su orbite dormienti. Spiega Punzo: «Per adesso il problema della spazzatura è ancora sotto controllo però nei prossimi anni i lanci aumenteranno e sarà necessario utilizzare dispositivi come Irene per evitare collisioni tra satelliti o tra detriti e la stazione spaziale internazionale dove sarebbe a rischio la vita degli astronauti». Grazie all’applicazione di un sistema di rientro, basato sulla tecnologia Irene, si contribuirà a non aumentare i detriti spaziali e a recuperare a terra alcuni costosi sottosistemi che in questo modo non sono bruciati dall’atmosfera terrestre durante il rientro. IL PLUS La tecnologia di Irene ha un’alta affidabilità anche se non richiede costi alti. I materiali utilizzati per lo scudo di protezione termica non nascono per il settore Spazio e sono economici e di facile reperibilità. Anche il costo del lancio in orbita di Irene è basso: aver ideato uno scudo termico flessibile consente alla capsula di occupare uno spazio molto ridotto all’interno del razzo vettore (trovandosi nella sua configurazione chiusa) il che si traduce in un risparmio economico. In questo modo Università e centri di ricerca possono effettuare sperimentazioni a basso costo aprendo le porte a enti che hanno fondi esigui e a studenti guidati da scienziati.

OBIETTIVO MARTE

Il 23 novembre alle ore 8.00 dalla base Esrange di Kiruna in Svezia è stato lanciato con successo Mini-Irene.

La missione ha visto la capsula compiere il suo volo sperimentale suborbitale: il prototipo è stato sganciato da un razzo sonda,con un vettore dotato di propulsore bi-stadio di tipo VSB-30, ha raggiunto l’altezza di 250 chilometri e da lì è cominciato il rientro atmosferico. La capsula è arrivata a terra ed è stata recuperata dai tecnici del team. L’obiettivo futuro di questo progetto è quello di realizzare poi una capsula chiamata Cadirasat che porti gli esperimenti che gli astronauti eseguono a bordo della Stazione spaziale internazionale. Marte, invece, non è un miraggio: con uno scudo più grande e con un paracadute subsonico si può arrivare sul pianeta rosso ed effettuare degli esperimenti. La missione su Marte è prevista per il 2029 secondo gli enti napoletani. Un pezzo di Napoli ci sarà.

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