Bruno Siciliano, professore di Automatica: «Un'etica umanistica per convivere con gli amici robot»

di Raffaele D'Ettorre
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Mercoledì 18 Maggio 2022, 10:45 - Ultimo aggiornamento: 25 Luglio, 11:50

Un destino segnato già dalla nascita quello di Bruno Siciliano, professore ordinario di Automatica presso l’università Federico II di Napoli, direttore del Centro Icaros per la chirurgia robotica e coordinatore del Prisma Lab.

Classe 1959 – lo stesso anno in cui il padre della robotica Joseph F. Engelberger realizzava il primo robot industriale dell’era moderna – Siciliano il prossimo 20 giugno verrà insignito proprio dell’“Engelberger Award for Education”, uno dei premi più prestigiosi nel campo della robotica.

Destino o coincidenza?

«Mi sento al centro di una strana congiuntura. Oltre alla coincidenza anagrafica, uno dei primi testi che ho studiato è stato proprio “Robotics in practice” di Engelberger, tra l’altro con prefazione di Isaac Asimov, uno dei miei autori preferiti. Tutti segnali che mi fanno credere che dedicare buona parte della mia vita alla robotica sia stata la scelta giusta».

Non è stato facile però.

«Qualche sacrificio c’è stato. Per restare a Napoli ho rinunciato a una cattedra a Stanford, che nel nostro settore è La Mecca. A trent’anni di distanza devo dire che sono contento della scelta fatta. Intanto perché a Stanford adesso leggono anche i miei libri, quindi in qualche modo ci sono arrivato lo stesso. Poi perché le nostre università, per quanto vituperate nelle classifiche internazionali, oggi accolgono professionisti di grossa levatura con cui sono orgoglioso di poter collaborare».

Proprio alla Federico II, con il Prisma Lab che lei coordina, progettate prototipi robotici. Di cosa vi state occupando adesso?

«Abbiano un importante progetto in ballo con l’Eni per realizzare un drone in grado di effettuare ispezioni lungo le condotte. È un robot ibrido che può volare, atterrare sulle tubature e poi “scorrerci” sopra con delle ruote multidirezionali. Una volta agganciata la tratta, il drone scansiona la tubatura in cerca di crepe o altre imperfezioni dovute all’usura, il tutto pilotato da algoritmi intelligenti».

Ma le ispezioni di solito non vengono effettuate dagli esseri umani?

«Un approccio non esclude l’altro. E l’approccio che preferisco è proprio quello dei robot come aiuto più che in sostituzione, specie nei lavori troppo faticosi o rischiosi. Pensiamo alla chirurgia: con i robot gli interventi durano di meno, sono meno invasivi e il recupero del paziente è più veloce.

La macchina lì non si sostituisce all’uomo ma consente a un chirurgo meno bravo o più stanco di eseguire comunque un’operazione precisa».

Meglio i robot intelligenti o i robot fattorini?

«Entrambi sono utili. Il primo è l’evoluzione naturale dello spirito pionieristico umano, che punta a rendere i robot sempre più perspicaci e capaci di apprendere dall’esperienza. Nel secondo caso non parlerei di “fattorini” ma di un aiuto concreto alla nostra specie. Nel rispetto dell’etimologia della parola robot e nel rispetto delle leggi di Asimov, il controllo però deve rimanere sempre in capo all’essere umano».

E chi controlla l’essere umano?

«Serve un’etica robusta da parte di chi progetta, implementa e realizza queste tecnologie. Pensiamo al fatto che il telecomando della tv è il sottoprodotto del sistema di puntamento delle armi. O che un esoscheletro robotico può sì consentire a una persona disabile di tornare a camminare, ma potrebbe anche trasformarlo in un superuomo. È importante che il dialogo della robotica si allarghi anche verso le scienze umanistiche, e oggi una delle aree di ricerca più attive è proprio quella che riguarda l’etica».

L’uomo è pronto a convivere con i robot?

«I giapponesi stanno preparando il terreno da anni, non a caso i loro robot hanno quasi tutti una forma umanoide o di ispirazione animale. I giapponesi, essendo di matrice scintoista, credono fermamente che la macchina debba avere un’anima. Il concetto è un po’ esagerato ma il design in questo caso può davvero fare la differenza. Un bambino avverte la presenza della mamma da un punto di vista fisico prima ancora che visuale. La componente fisica del robot, insomma il suo design, diventa perciò fondamentale quando introduciamo macchine intelligenti in ambienti delicati come scuole e ospedali, dove la convivenza con l’uomo è imprescindibile».

Quindi c’è il rischio che i robot vengano discriminati?

«Ci sono stati alcuni casi di robot babysitter e robot badanti in cui la persona assistita, proprio perché si trovava davanti un ammasso di plastica e titanio, ha trattato la macchina con aggressività e violenza».

Insomma teme che i robot si possano vendicare.

«Una macchina intelligente può ricordare se un determinato utente l’ha trattata male, e programmandola ad hoc potrebbe porsi in modo più amichevole verso chi invece la sa “prendere”. Non parlerei di emozioni, perché le reazioni umane sono dettate anche da fenomeni biochimici, status mentali e convinzioni personali come l’empatia. Dei tratti che nei robot risultano ancora oggi difficili da emulare».

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