Mettere l’Ilva di Taranto nelle condizioni di offrire una sponda alla manifattura industriale che, per scarsezza di materia prima, costi e fornitura di gas a causa della guerra in Ucraina, si sta fermando o rischia di fermarsi. E quindi tre altiforni (l’altoforno 4 dovrebbe riprendere in queste ore) e due acciaierie in marcia ed una produzione 2022 di 5,5 milioni di tonnellate di ghisa e di 5,7 milioni di acciaio. Il “disegno” enunciato dall’ad di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli, nei giorni scorsi in Confindustria a Roma, ha trovato le prime risposte in Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, e soprattutto nel premier Mario Draghi che col Dl Energia, varato lo scorso venerdì, apre ad Ilva la garanzia pubblica di Sace relativamente al 90 per cento dell’importo di finanziamento che l’azienda dovesse chiedere al sistema bancario. Oltre ai 150 milioni spostati sulla decarbonizzazione, la misura di Sace permette ad Acciaierie d’Italia di approvvigionarsi, lavorare e pagare fornitori e appaltatori. E quindi mettersi nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Draghi: provvedimenti per aumentare la produzione dell'acciaio nell'ex Ilva di Taranto
Gli scenari e il problema ghisa
Ma cosa può fare Ilva per sostenere la manifattura in questa fase critica? Continuare a fornire bramme di acciaio a tutti i trasformatori. Questo lo fa già, in verità, solo che adesso potrebbe diventare più sistematico e rilevante sotto l’aspetto quantitativo. Inoltre, potrebbe fornire la ghisa alle fonderie, che sono alle strette. Ma anche alle acciaierie elettriche, che nei loro forni la miscelerebbero al rottame di ferro, anziché usare il più costoso preridotto. Attualmente Ilva la fornitura all’esterno di ghisa non la fa perchè quella che produce con gli altiforni va in acciaieria per essere trasformata in acciaio. Rimane quindi in fabbrica. Ma portare la ghisa fuori non è semplice. Non è un normale trasporto. Si ipotizza la possibile fornitura da Taranto alle fonderie di circa 500mila tonnellate ma prima va allestita un’organizzazione ad hoc. Che ora il siderurgico non ha. Fonti tecniche interpellate da Quotidiano spiegano che vendere la ghisa, che è un semiprodotto e non un prodotto finale come lo è invece l’acciaio, significa fermare la produzione in un tempo anticipato rispetto alle successive fasi di completamento. Dagli altiforni, la ghisa esce allo stato liquido, ad una temperatura elevatissima, circa 1.500 gradi, e immessa nei carri siluro, convogli speciali rivestiti di materiale refrattario, per andare ai convertitori dell’acciaieria per la trasformazione.
L'aumento dei prezzi
Le fonti tecniche interpellate da Quotidiano spiegano che ci sarebbero vecchi impianti, magari non utilizzati, che potrebbero essere montati a Taranto anzichè predisporne di nuovi. È evidente che se Ilva manda all’esterno della ghisa, ne avrà poi meno per farne acciaio. E un coils, prodotto finale, è più remunerativo della ghisa. Solo che la guerra ha stravolto tutto. Le fonderie, che prima compravano ghisa in Ucraina, ora la cercano in giro per il mondo “bussando” anche al Brasile. Oggi un coils nero uscito da un treno di laminazione costa circa 1.000 euro alla tonnellata contro i 550 pre guerra. Ed una tonnellata di ghisa viaggia sui 600 euro e passa contro i vecchi 300-350. Sarebbe quindi più remunerativo vendere coils. Ma vendendo ghisa, il tempo di incasso per Ilva è decisamente più breve rispetto al dover aspettare che quella ghisa diventi acciaio e poi, con le fasi successive del processo, bramma e coils. Si comprimono di molto i tempi tra materia prima e incasso, questione non da poco.