Padre Antonio: «La mia vita all’inferno e ritorno
così racconto i miei demoni»

Padre Antonio: «La mia vita all’inferno e ritorno così racconto i miei demoni»
di Alessio PIGNATELLI
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Sabato 3 Marzo 2018, 05:35 - Ultimo aggiornamento: 18:29
«Sono appena tornato da Vittorio Veneto. Sono stato invitato da un parroco di Soligo, ho incontrato scuole, educatori e familiari. È andata bene, questa storia sta facendo il giro di tutta Italia. L’altro giorno ero con gli studenti della Masterform di Taranto. L’argomento tossicodipendenza è fondamentale, una testimonianza come la mia forse può essere più importante di un convegno informativo».
Sì, perché chi parla è un frate. Dall’aspetto atipico, magari. Barba lunga, braccialetti, capelli arruffati alla Caparezza, uno dei suoi cantanti preferiti. È padre Antonio Salinaro, parroco della chiesa San Pasquale di Taranto, un passato torbido tra anfetamine, eroina e conoscenze sbagliate. Poi il riscatto. Un percorso lungo, complicatissimo. Fatto di pianti, dolori e, infine, una nuova consapevolezza che adesso lo porta a spasso per il Paese a raccontare i pericoli di quel maledetto tunnel. Da cui si può uscire. Lui ce l’ha fatta, molti suoi compagni no. Sono morti. Anche per loro ma soprattutto per le nuove generazioni, padre Antonio apre i cassetti della sua memoria.
«Sono figlio di ragazza madre. Dall’età di 5 anni decido che nella vita dovevo dare fastidio ed essere un ribelle. A 7 anni apro l’armadietto dei liquori, mi scolo un litro di sambuca e mezzo di whisky. Vado in coma etilico. Per la prima volta vedo la morte negli occhi, mi salva una lavanda gastrica». È solo il primo episodio di una strada colma di ostacoli. Per esempio, il piccolo Antonio alle scuole elementari è solito lasciare lo zainetto vicino al banco e scappare. Andare via, senza dire nulla. In un’epoca in cui non esistono smartphone o cellulari.
«Fondamentalmente avevo bisogno di essere al centro dell’attenzione. Mia madre era sempre impegnata al lavoro, vivevo un vuoto affettivo a causa della mancanza di un padre. Era una sorta di copione che mi ero dato: dovevo ricevere attenzioni». Antonio è bocciato per tre anni alle scuole superiori, al Quinto Ennio. «Nel 1986 presento domanda per entrare in Marina militare, passo i test e le visite mediche. Per socializzare entro in un gruppetto che si faceva le canne. Non avevo mai fumato quella roba. Questa cosa si protrae nel tempo, diventa una quotidianità. Avevo quasi diciotto anni. A un certo punto decidiamo di cambiare. Nei vari porti riusciamo a procurarci francobolli di Lsd, cocaina. Chi andava a prostitute, chi sceglieva la roba. Dopo qualche anno mi beccano, le analisi mi trovano positivo agli oppiacei e ai cannabinoidi: espulso immediatamente. La mia vita era fallimentare da tutti i punti di vista: da quello scolastico, bocciato e senza diploma; da quello affettivo, con una madre sconvolta da quell’esperienza. Ero deludente anche a me stesso, avevo mandato al diavolo il cosiddetto posto fisso».
In questo fallimento completo fa breccia l’eroina, effimera soluzione ai problemi di quel ragazzo perduto. «Prima tirandola, poi facendomela nelle vene. Taranto viveva un periodo particolare con la faida tra le famiglie malavitose Modeo e De Vitis. Lavoravo in un garage, mi trovavo in situazioni strane, pistole nascoste, macchine messe da parte». Inizia a frequentare giri pericolosi conoscendo personaggi poco raccomandabili. «Non ero una brava persona: minacciavo, rubavo, alzavo le mani a mia madre per i soldi. La droga ti spersonalizza, fai tutto per lei, non esiste mangiare, lavarsi. Gli affetti vengono sedati del tutto. Passa tutto in secondo piano. La droga ti lacera, non sei più tu. Sia quando ti fai, sia dopo poiché ti resta quel pensiero fisso».
La madre decide di aprire e affidargli una cartoleria in via Liguria per tenerlo sotto controllo. Tra le conoscenze pericolose di Francesco, c’è anche Nando. È un pusher che va in giro con una 126 verde pistacchio. Ogni tanto lo accompagna. Dai Tamburi alla Salinella fino a Paolo VI. «Un giorno scompare con un carico ingente di eroina. Qualche sera dopo, due tizi armati entrano nel mio negozio. Credono che io sia il gancio. Chiudono la saracinesca e mi massacrano di botte. Mi fanno saltare un dente, mi minacciano con la pistola. Quel periodo diventa un incubo: mi seguono dappertutto».
Troppa la paura per denunciarli, il timore è di morire senza un perché. È però una paura reattiva. Con la madre decide di firmare una sorta di contratto: o col suo aiuto ne esce fuori, o entra in una comunità. Sta malissimo per tre settimane a livello fisico, non solo psicologico. Non mangia, non dorme, è perseguitato dai dolori. Un piccolo aiuto arriva dalle medicine omeopatiche evitando il metadone che comunque crea dipendenza. Pian piano il corpo inizia ad abituarsi all’assenza di droga: «Inizio a sedermi a tavola per mangiare con gli altri, ad ascoltare musica, ad avere più regolarità negli orari. Per qualche mese riesco a essere pulito: un amico fuorisede mi chiama un giorno proponendomi di farci insieme. Accetto, andiamo con la mia macchina e mentre lui sta preparando le dosi mi sembra di sdoppiarmi. Come se guardassi tutta la scena dall’alto. Non ci ricasco. Dico di no, un no consapevole. Determinante».
 
Subentra poi la depressione. Un calo psicologico e fisiologico. Non trova un senso alla vita e non vede un futuro davanti. «Una sera decido di andare da un prete molto giovane, appena arrivato alla parrocchia Sant’Egidio. Non so cosa dire, Dio non è un problema o un pensiero per me. Don Antonio mi ascolta, parliamo per ore. È un cambio di prospettiva. In quella confessione di oltre due ore, tra singhiozzi e parole, riesco a sentirmi amato e liberato da parecchi pesi. Soprattutto mi sento dignitoso. Avevo fatto un percorso di disumanizzazione fino a quel momento ma riesco a iniziare daccapo». Riscopre la figura di Cristo. Diverso da quello studiato sui libri del catechismo. Un cammino stabilizzante costellato anche da una relazione seria con una ragazza. Un percorso che dura tanto: dopo 7 anni entra in convento per una scelta definitiva.
«È il 1997. Mia madre non è contenta quando glielo dico. Da me si aspettava un matrimonio, magari dei nipotini. Nel 1998 mi diplomo da privatista, adesso ho due lauree e un master universitario in counseling e sto scrivendo la tesi per il dottorato. Un percorso di riscatto totale». Lui ce l’ha fatta ma non vuole essere un esempio, semmai un monito: «Sono fortunato. Una ragazza con cui ho fatto tante cretinate mi viene a trovare in chiesa. Altri però sono morti di overdose, ultimamente un caro amico che era stato in comunità è deceduto per un infarto. Il mio è stato un periodo in cui l’eroina ha fatto stragi. Racconto la mia storia perché penso che sia possibile uscirne se sei determinato». Con la consapevolezza, anche, di sentire tuttora critiche o commenti aspri. Fa parte del gioco. E ne vale la pena: «Non posso piacere a tutti, io mi sono riconciliato con il passato. Possono prendere la mia storia come modello o metterla sotto i piedi. È un rischio, lo so, dentro e fuori dalla chiesa. Alcuni sono rimasti delusi per il mio trascorso ma a me non interessa. Se vuoi, mi accetti così. Quello che sono adesso è anche frutto delle mie esperienze. Dio e io possiamo costruire un futuro diverso, vale per chiunque».
Anche per chi, magari, è finito nella trappola. Non è mai troppo tardi. E la ricetta può essere solo una: «La mia generazione ha consegnato tutto ai ragazzi: istruzione, valori, tecnologia ma ci siamo dimenticati i sogni. Questi giovani non hanno prospettive per il futuro. Di solito invito quelli che vivono queste situazioni a immaginarsi un futuro diverso. Però, mai da soli. Ci vuole sempre qualcuno con cui coltivare e condividere quel sogno».
 
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