Morte per amianto, il vitalizio riconosciuto alla moglie

Morte per amianto, il vitalizio riconosciuto alla moglie
di Nazareno DINOI
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Giovedì 10 Novembre 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 12:49

La sezione Lavoro del Tribunale di Taranto, giudice Giulia Viesti, ha stabilito il diritto ad una rendita vitalizia alla vedova di un ex lavoratore dell’indotto Ilva di Taranto (ora Acciaierie d’Italia), morto per mesotelioma pleurico, riconoscendo come causa l’esposizione all’amianto

La storia

La particolarità della sentenza è che la malattia si è manifestata dopo trent’anni dalla cessazione del rapporto di lavoro dell’operaio che è stato alle dipendenze di Fintecna dal 1972 al 1983. La pronuncia del magistrato riconosce la malattia professionale anche dopo trent’anni dall’avvenuta esposizione confermando così la pericolosità delle fibre d’amianto che una volta entrate nell’organismo continuano a danneggiarlo irrimediabilmente. 
Dopo la morte avvenuta nel 2017 all’età di 70 anni, i suoi parenti si sono rivolti all’avvocato specializzato in diritti del lavoro, Antonio Pompigna, che ha intentato la causa non contro l’azienda ma nei confronti dell’Inail per il riconoscimento della malattia professionale. L’istituto che si è costituito in giudizio, riteneva infondata la pretesa della famiglia del lavoratore chiedendone il rigetto sulla base dell’accertamento medico-legale del suo perito secondo il quale il decesso sarebbe stato determinato da una patologia senza alcun nesso causale con la pregressa attività lavorativa. 


Di diverso parere il consulente tecnico del giudice il quale ha stabilito che «considerata la lunga esposizione professionale dell’ex operaio che ha lavorato nello stabilimento industriale dell’Ilva di Taranto per più di 10 anni senza che venissero peraltro utilizzati i corretti presidi di sicurezza, può ritenersi elevata la probabilità di causalità materiale tra la neoplasia pleurica (mesotelioma) contratta dal paziente e l’inquinamento industriale diffuso nell’ambiente dal siderurgico Ilva di Taranto». 
Fondamentale è stata anche la testimonianza di alcuni colleghi del lavoratore che hanno concordemente ed attendibilmente confermato che il loro collega si occupava di mansioni che lo esponevano a sostanze tossiche. Sulla base di questo e rifacendosi ad altri pronunciamenti della Cassazione, la giudice Vieste ha riconosciuto che nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, «il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge». 


In mancanza quindi di prove certe sull’avvenuta esposizione all’amianto nel periodo successivo all’impiego in Ilva, è considerata valida, secondo la giudice, quella oggettiva dei dieci anni trascorsi nel siderurgico.

Esattamente quanto chiedeva l’avvocato Pompigna che ha ottenuto così il vitalizio per la vedova con la possibilità, da riconoscere in altra sede, di un congruo risarcimento ai figli eredi del lavoratore.

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