Neanche il tempo di giurare e per il governo Draghi già si profila la prima grana. Il dossier più ingarbugliato degli ultimi anni si arricchisce infatti di un altro nodo: da sabato, sull'Ilva di Taranto, incombe una sentenza del Tar di Lecce che ha disposto lo spegnimento, entro 60 giorni, degli impianti più inquinanti dell'area a caldo. Certo, la trafila non è conclusa poiché è già stato annunciato il ricorso di ArcelorMittal al Consiglio di Stato ed è scontata una richiesta urgente di sospensiva del provvedimento. È però l'ennesima falla di una vertenza in cui lo Stato sembrava essere entrato prepotentemente a dicembre. Peccato però che l'accordo tra Invitalia - società del Mef - e Am Italia per una partnership pubblico-privata si sia cristallizzato a causa dei subbugli di Palazzo Chigi e manchi ancora la formalizzazione della nuova società.
«La presenza tra qualche settimana di Invitalia e quindi dello Stato nel capitale dell'azienda avrà a che fare con la volontà di prendersi cura di tutti gli stabilimenti».
Non è assolutamente detto che tra due mesi l'area a caldo del siderurgico sarà spenta. Anzi. Innanzitutto, Am Italia ha già annunciato un ricorso al Consiglio di Stato. Presumibilmente, sarà richiesta una pronuncia urgente con richiesta di sospensiva. Il lasso temporale di 60 giorni consente alla multinazionale di prendere le contromisure: per avviare lo spegnimento di un altoforno, esempio di impianto più complesso dell'area a caldo, le stime aziendali in passato riferivano di circa 45 giorni. Secondo fonti sindacali, tecnicamente si potrebbe impiegare anche meno. Quindi il tempo per confezionare un contrattacco c'è anche se ovviamente fermare quegli impianti non è come abbassare un interruttore e l'organizzazione è molto complessa.
C'è poi un altro aspetto. Guardando al passato, la magistratura penale era già intervenuta sequestrando l'area a caldo senza facoltà d'uso. Basti pensare al sequestro del gip di Taranto, Patrizia Todisco, a luglio 2012: intervenne pesantemente la politica con dei decreti legge che stabilirono la rilevanza strategica degli impianti evitando il fermo. Tutto questo non significa che il premier Draghi, i ministri Giorgetti (Sviluppo economico), Cingolani (Ambiente con propulsione alla transizione ecologica) e Orlando (Lavoro) possano tergiversare. Anche perché il disegno di dicembre per il ritorno dell'acciaio di Stato è rimasto sulla carta. Ancora non è stato firmato il decreto per il versamento di 400 milioni di euro con cui Invitalia entra al 50% in Am Investco, società creata dal gruppo siderurgico per l'Italia. E non è stata formalizzata la nuova società pubblico-privata, non c'è il cda che prevede presidente di nomina statale e amministratore delegato ad appannaggio Mittal. I sindacati sono sul piede di guerra, hanno proclamato uno sciopero per il 24 febbraio perché la trattativa sul piano industriale è nelle sabbie mobili: manca la metà degli interlocutori, ossia i referenti di Invitalia. E quindi non c'è lo Stato. I sindacati si sono già appellati al nuovo presidente del Consiglio. Anche gli enti locali, dal presidente pugliese Michele Emiliano al sindaco Melucci, chiamano Roma. Insomma, quel dossier che ha fatto penare i diversi governi precedenti si confermerà una gatta da pelare anche per il governo neonato.