“Ambiente svenduto”, battaglia in Assise ma il processo resta a Taranto

“Ambiente svenduto”, battaglia in Assise ma il processo resta a Taranto
di Mario DILIBERTO
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Lunedì 18 Luglio 2016, 21:26 - Ultimo aggiornamento: 25 Luglio, 10:13

«Difficile lavorare in queste condizioni». Sbotta il presidente della Corte di Assise Michele Petrangelo mentre chiede silenzio nell’aula Alessandrini, colma come un uovo di avvocati e imputati del processo “Ambiente Svenduto”.
Impossibile dargli torto. Anche al di là del fastidioso brusìo di fondo.
Perché l’udienza fiume di ieri ha consegnato l’ennesima immagine di un processo elefantiaco e difficile da gestire. Per chi è al timone e vuole portare avanti il dibattimento a ritmi sostenuti. Ma anche per le parti del caso giudiziario focalizzato sul disastro ambientale contestato all’Ilva.
Fatto sta che in aula è andata in scena una lunga giornata di battaglia.  Con l’offensiva lanciata dalla difesa che ha rilevato la necessità di spostare il processone a Potenza, invocando una sentenza per incompetenza funzionale. Una vera e propria bomba lanciata sul percorso, sino ad ora già abbastanza accidentato, del procedimento chiamato a fare luce sull’inquinamento del capoluogo jonico e non solo. Alla fine la Corte ha deciso che la camionata di atti di «Ambiente Svenduto» e il suo carico di veleni da Taranto non si muove. E già stamattina si tornerà in aula per la seconda delle tre udienze ravvicinate, prima della pausa estiva. Si è faticato tanto, però, ieri per tirarsi fuori dall’ennesimo pantano.
 

 
 
La mattinata è stata monopolizzata dalla citazione delle tre società come responsabili civili. Un nodo gordiano si è innescato sulle modalità di notifica delle citazioni. Eseguite con raccomandata e non mediante ufficiale giudiziario.
La controversia è ricaduta su alcune parti civili, scivolate sulla questione procedurale, che hanno visto escludere la loro citazione.
Più acceso e appassionante, poi, si è rivelato lo scontro sulla successiva eccezione sollevata dalla difesa. A fare da ariete l’avvocato Pasquale Annichiarico, difensore di Nicola Riva, uno dei figli del patron Emilio alla sbarra nel processone.
Sul tavolo una questione già sollevata nei precedenti round, ma arricchita da un altro capitolo. Si tratta della costituzione di parte civile di due giudici di pace. La norma di riferimento è chiara. Se nel processo compare come parte un magistrato in servizio nel distretto, qualsiasi procedimento deve cambiare sede, questo per garantire la assoluta terzietà del giudizio. Doppio, in questo senso, il nodo da sciogliere.
L’avvocato Annichiarico ha fatto riferimento alla posizione dell’avvocato Nicola Russo, uno dei volti della lotta contro l’Ilva e promotore del famoso referendum sulla chiusura della fabbrica. Lui, giudice di pace, si era costituito parte civile in giudizio, ma poi ha ritirato l’istanza. In più, ed è questa la novità evidenziata ieri, tra le oltre mille parti civili vi è un altro giudice di pace, Martino Giacovelli, proprietario di un terreno vicino allo stabilimento. Quell’appezzamento, proprio al confine con la grande fabbrica, sarebbe stato contaminato da polveri e veleni industriali e per questo il diretto interessato ha legittimamente chiesto di essere risarcito.
Anche su questa posizione il processo ieri ha rischiato di arrestarsi nuovamente. Con il trasferimento a Potenza. In aula le argomentazioni dei legali della difesa si sono rincorse a lungo. La richiesta di Annichiarico è stata rilanciata dall’avvocato Giandomenico Caiazza, legale di Girolamo Archinà.
Il procuratore aggiunto Pietro Argentino, dal suo canto, dopo una breve interruzione per valutare la questione, si è opposto rilevando che il giudice di pace ha lasciato il suo incarico nel 2015. E che, come comunicato dal legale dello stesso giudice, l’avvocato Martino Rosato, prima di quella data non era mai stata avanzata istanza di risarcimento. Sul punto si è scatenato il nuovo conflitto, con la Corte che si è ritirata ancora una volta in camera di consiglio. Un conclave dopo il quale il collegio ha sposato la tesi della procura.
In serata, il caso Russo è stato dribblato grazie proprio alla scelta del giudice di ritirare la sua costituzione di parte civile. L’altra situazione, invece, è stata archiviata in ragione dell’incarico lasciato dal magistrato onorario. Così il processo resta a Taranto. Con i suoi 47 imputati, 44 persone fisiche e tre società. E il suo carico imponente di imputazioni, veleni e sentimenti. Si torna in aula questa mattina. Per un’altra tappa di un cammino inevitabilmente ad ostacoli.









 

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