Gio Ponti, i 50 anni del sogno

Gio Ponti, i 50 anni del sogno
di Anita PRETI
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Domenica 6 Dicembre 2020, 23:26 - Ultimo aggiornamento: 7 Dicembre, 23:50

La casa degli angeli. Ma sarà poi vero? Per averne idea o conferma, basta darle un'occhiata, è una chiesa, tanto più che si è creata l'occasione per raggiungerla in quella zona che mezzo secolo fa era la periferia est di Taranto ed oggi è un quartiere popoloso e commercialmente tra i più validi. Oggi, proprio oggi, con il contorno di tutte le doverose celebrazioni, la Concattedrale di Taranto, la casa degli angeli, opera dell'architetto Gio Ponti, compie mezzo secolo.
 

 


Fu inaugurata infatti il 6 dicembre 1970, poche ore prima del tentato golpe di Borghese. La posa della prima pietra era avvenuta nel 1967, mezzo miliardo di lire il costo. Un tempo abbastanza ragionevole tra il primo e il secondo avvenimento, con Ponti, il mastro, il maestro dell'architettura moderna italiana (e non solo, nato a Milano nel 1891, studi al Politecnico dove poi avrebbe lungamente insegnato) spesso seduto ad un improvvisato tavolo di lavoro nel bel mezzo del cantiere (immagine rimandata dagli archivi) con in testa una scazzetta, il cappelluccio del muratore che invece di essere fatto di carta sembra, nelle foto riconsegnate dagli archivi, il colbacco dei fratelli Caponi quando arrivano a Milano (Totò e Peppino in un celebre film di Mastrocinque). Ma il freddo in quel dicembre c'è e si fa sentire più di adesso. Sono anni ormai che Gio Ponti frequenta la città dei due mari, interpellato e stuzzicato negli intenti da Guglielmo Motolese, il potentissimo arcivescovo che coltiva tanti progetti di rinnovamento. Del resto in Vaticano Giovanni Battista Montini, il pontefice Paolo VI, nel clima postconciliare si è già mostrato un teorico dell'apertura all'arte: Bisogna ristabilire l'amicizia fra la Chiesa e gli artisti ha detto, incontrandoli, sotto la volta della Cappella Sistina. Figurarsi che musica è stata per le orecchie di uno come Ponti che ha passato la vita a scansare, appena possibile, l'appellativo professionale di architetto: Artista invece di architetto, perché non si creda che architettare voglia dire solo costruire, dichiara pimpante. Architettura è costruire da artista. Ed allora ecco il più completo architetto italiano d'ogni tempo, come lo hanno definito fiori di competenti (dagli edifici alla Superleggera, la sua celebre sedia), lasciare briglia sciolta alla sua fantasia e partorire questa idea degli angeli. Passino gli 87 metri per 35 della navata unica ben alta da terra, alla quale si accede da una lunga scalinata preceduta da una sequenza di vasche riempite d'acqua; passi per la cripta; passi per il cemento a vista e quel colore verdino dominante ovunque, un Verde Ponti del tutto speciale.

Ma se la fantasia deve volare, ebbene allora salga, salga fin lassù, in cielo, abbarbicandosi a quella parete alta 40 metri, tutta traforata, che rispetto alla chiesa è come una quinta volendo teatralizzare il concetto di cupola. Un'immensa parete traforata che si staglia sull'orizzonte. Una volta, mezzo secolo fa, lo chiudeva quell'orizzonte essendo questo il limite estremo della città, una zona di assoluto degrado popolata di baracche di legno e ferro dove trovavano casa gli umili. Invece adesso è lì, fra i giochi di quel traforo di cemento, che gli angeli trovano casa per riposare. Magari sono loro gli antenati mai dimenticati delle baracche, gli zeri del mondo, come canterebbe qualcuno, che complici la Chiesa, Ponti e l'amore hanno trovato finalmente pace. Bartolomeo Pietromarchi, direttore della sezione Arte del Maxxi, il museo del ventunesimo secolo che ha sede a Roma (ed ha ospitato una colossale esposizione dell'opera omnia di Ponti, così come ha fatto il Museo delle arti decorative di Parigi, così come si appresta a fare Taranto, nel Museo diocesano, non appena sarà stata archiviata l'emergenza sanitaria), Pietromarchi dunque ha dichiarato una volta che ormai non c'è più bisogno dell'arte sacra. La sacralità era importante per il mondo antico. Oggi è superata. È la spiritualità ad essere attuale. E l'opera di Gio Ponti è perfettamente confacente a questo criterio.
Entrare nella Concattedrale di Taranto, come ha spiegato su queste colonne il giovane architetto napoletano Giuliano Dell'Uva, uno dei più recenti illustri visitatori, è un'esperienza sensoriale e sentimentale con pochi uguali. Nel vasto silenzio che la inonda, la Fede smette di essere una parola indecifrabile per chi non crede. Per attenersi all'esegesi perfetta dell'imponente manufatto, bisogna poi doverosamente accogliere anche la più concreta tesi in vigore. Quei quaranta metri sono infatti, nelle dichiarazioni del progettista, la vela di una nave che ha di fronte il suo specchio d'acqua, simbolizzato dalle vasche. Taranto è una città di mare. Le era dovuto. E che la Gran Madre di Dio, alla quale la chiesa è intitolata, vegli per sempre su quel mare e sulla città senza inficiare il valente operato di San Cataldo, il patrono in carica. Resta poi da vedere se tutto questo i tarantini lo abbiano capito. Difficile a dirsi, né per una cattedrale così moderna sono previsti i sopratitoli come si fa a teatro con la lirica.
La certezza che non abbiano capito molto bene sta nel fatto che periodicamente le vasche, satelliti della Concattedrale, debordino degrado costringendo l'amministrazione comunale a ripetuti interventi.

Quello attuale, predisposto dall'amministrazione Melucci, fa seguito a quello degli anni Novanta, amministrazione Cito. Del resto se una città come questa si permette di tinteggiare di giallo un'Ellisse di Nicola Carrino, tra i maggiori scultori del Novecento, per caso anch'egli tarantino, occorre arrendersi. Ed è inutile spiegare che Taranto non custodisce solo la bellezza del MarTa ma anche la ricchezza del presente: le case degli studi Nizzoli al quartiere Paolo VI; il palazzo di via Anfiteatro che ospitava una volta una compagnia assicurativa progettato dagli architetti Chiaia e Napolitano; l'opera dei Sartogo e di Piccinato per la zona Bestat. Non trascurando, in altro campo, il disegno dell'ingegnere Giorgio Belloni per il Ponte Punta Penna Pizzone. Gio Ponti è il battistrada della modernità a Taranto. Non è da escludere che la conoscesse ancor prima degli approcci avvenuti con la Curia nel 1964 (una volta che la stessa aveva accantonato l'idea di affidarsi a Pier Luigi Nervi, grande amico di Ponti) suffragati da una copiosa corrispondenza. Una di queste lettere è stata battuta all'asta da una nota casa italiana solo pochi giorni fa. È invece certo che l'architetto milanese, maestro del razionalismo nella metropoli lombarda, aveva anche urgenze neoclassiche. Si manifestano nella doviziosa ideazione, mai minore, di elementi del design o nei progetti per la manufatturiera ceramica del tempo ma ancora oggi in produzione. Lo confermano, ad esempio, la serie La passeggiata archeologica o il Triumphus Amoris che strizza l'occhio alla Magna Grecia. Certo, nella Milano fulgida dei Mattioli, dei Ballo, dei Grassi, degli Aldrovandi, dei Vigevani e di tanta bella gente, lui che era anche un giornalista, fondatore e direttore di testate (nel 1928 la sua Domus che lascia solo per andare a fondare Stile) era presente nei spazi della Bompiani la sera in cui il martinese Guido Le Noci, potente gallerista, cercava di convincere Cesare Brandi a fare il suo bel libro sulla Puglia con le foto di Ugo Mulas. Insomma, come avviene ai suoi angeli (li piazza anche nel progetto per la cattedrale di Los Angeles) Gio Ponti è ovunque. Con lo sguardo sempre ben acceso sul mondo che cambia. Al quale ha regalato due simboli perenni: a Milano il grattacielo Pirelli; a Taranto la Concattedrale. Perché, solo guardandoli, tutti possano immaginare di toccare il cielo con un dito.


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