Detenuto tenta il suicidio, gli agenti accusati di essere intervenuti troppo tardi: «Ora lo Stato risarcisca i familiari»

Detenuto tenta il suicidio, gli agenti accusati di essere intervenuti troppo tardi: «Ora lo Stato risarcisca i familiari»
di Lino CAMPICELLI
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Sabato 15 Febbraio 2020, 12:14 - Ultimo aggiornamento: 15:31
Anche lo Stato sott'accusa per il caso del tardivo intervento degli agenti penitenziari nel salvataggio di un detenuto che tentò il suicidio. Nell'udienza davanti al gup del tribunale di Taranto, Giuseppe Tommasino, infatti, si è costituito il ministero attraverso l'Avvocatura dello Stato. A chiamare in causa lo Stato, in qualità di responsabile civile, sono stati i familiari della vittima, che si sono costituiti parte civile.

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Rifiuto di atti urgenti nell'esercizio delle proprie funzioni: questa l'accusa che grava a carico di due esponenti della polizia penitenziaria di Taranto, incriminati dalla magistratura jonica. L'accusa è formulata dal procuratore della Repubblica aggiunto Maurizio Carbone per un episodio che avvenne nel reparto detentivo di degenza situato nell'ospedale Santissima Annunziata di Taranto. Il procedimento attivato da Carbone poggia sulla denuncia presentata dal detenuto, salvato in extremis dagli stessi agenti di polizia penitenziaria ma con conseguenze rilevanti per la sua salute. L'uomo, infatti, fu ricoverato in stato di coma post-anossico da arresto cardiocircolatorio nel reparto di rianimazione dell'ospedale, in conseguenza del tentativo di suicidio non frustrato immediatamente.

Dopo la denuncia, le indagini della Mobile, una consulenza tecnica disposta dal procuratore aggiunto e alcuni interrogatori disposti dal pm inquirente rappresentarono la linfa vitale per le varie contestazioni. Le accuse a carico dei due agenti penitenziari sono plurime. Per il mancato, tempestivo intervento finalizzato a salvare il detenuto, il dottor Carbone ha contestato agli imputati anche il reato di lesioni personali gravissime. Stando alla tesi della magistratura, i due uomini, delegati al piantonamento del detenuto e dotati di un sistema di videosorveglianza che inquadrava la camera di degenza sarebbero intervenuti a distanza di 25, 30 minuti dal tentativo di suicidio. Il gesto fu attuato dal detenuto il 25 marzo 2018, passando un maglione, secondo l'accusa, «nella cerniera più alta della porta del bagno e annodandolo intorno a proprio collo». L'uomo sarebbe rimasto appeso, con una sorta di laccio che gli stringeva il collo, per un lasso di tempo incompatibile con l'intervento per ragioni d'urgenza a cui sarebbero stati tenuti i due agenti.

Ma il pm contesta un'altra circostanza, trasfusa nell'imputazione di falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, e di soppressione, distruzione, occultamento di atti pubblici, con l'aggravante di aver agito per conseguire l'impunità: quattro gli agenti incriminati. In aggiunta ai due delegati alla sorveglianza del detenuto, infatti, è imputata un'altra coppia di colleghi. A vario titolo, avrebbero riversato su un hard-disk, dopo aver contattato il tecnico installatore del sistema di videosorveglianza dell'ospedale, il filmato relativo alla scena del tentativo di suicidio del 25 marzo 2018. Il quartetto, che avrebbe portato via il filmato trasfuso nell'hard-disk, avrebbe eliminato le scene dell'episodio che avrebbero dimostrato come l'intervento per impedire il suicidio sarebbe avvenuto in ritardo. Nuova udienza in aprile. E uno degli imputati ha chiesto l'abbreviato.
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