C'è da verificare se è compatibile con le norme europee che uno Stato membro, come l'Italia nel caso Ilva di Taranto «in presenza di un'attività industriale recante pericoli gravi e rilevanti per l'integrità dell'ambiente e della salute» possa «differire il termine concesso al gestore» per adeguarsi all'Autorizzazione integrata ambientale (Aia) con «misure» di tutela «ambientale e sanitaria» per una «durata complessiva di undici anni», dal 2012 al 2023. È una delle questioni sollevate dai giudici milanesi nell'ordinanza con cui hanno rimesso alla Corte di Giustizia europea alcuni temi della 'class action' instaurata da cittadini di Taranto che chiedono la chiusura del polo siderurgico.
Le richieste alla corte Europea
Inoltre, per il Tribunale di Milano bisogna accertare pure se non contrasta con le norme europee la normativa italiana che non prevede che la «Valutazione di Danno Sanitario» rientri nella «procedura di rilascio e riesame» dell'Aia. E ciò «specialmente», si legge nell'ordinanza, quando questa valutazione «dia risultati in termini di inaccettabilità del rischio sanitario per una popolazione significativa interessata dalle emissioni inquinanti». In più, si chiede alla Corte di valutare se l'Aia debba prendere in considerazione «tutte le sostanze oggetto di emissioni che siano scientificamente note come nocive, comprese le frazioni di Pm10 e Pm2,5 comunque originate dall'impianto».
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