Il personaggio/ Conte, il ct che ha rottamato il "nonsipuotismo" italico

Il personaggio/ Conte, il ct che ha rottamato il "nonsipuotismo" italico
di Francesco G. GIOFFREDI
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Domenica 19 Giugno 2016, 09:03 - Ultimo aggiornamento: 15:12
Il ghigno del perfezionista e l’ossessione martellante per la vittoria o, prima ancora, per la scalata famelica, per il dogma del “tutto o nulla” e per la religione del gruppo, della squadra cementata attorno a un patto di sangue: Antonio Conte, in fondo, è sempre stato questo. Un continuo plasmarsi (da giocatore) e forgiare (da allenatore), artigiano e guru inappagato, spostando sempre l’asticella più su. Stavolta però il ct azzurro s’è messo in testa, volontariamente o no, di rottamare un paradigma che va oltre lo steccato del calcio e che investe l’identità del Paese: il nonsipuotismo, il virus della rassegnazione e del fatalismo individualista (tradotto: viste le condizioni tutto va male, nulla si può, al limite solo l’uomo della provvidenza ci salverà) teorizzato quasi 300 anni fa dal filosofo ed economista napoletano Antonio Genovesi per sintetizzare il dna del Mezzogiorno.

Qualunque sarà il destino della Nazionale italiana agli Europei francesi, Antonio da Lecce ha ormai scolpito la sua lezione, impastata grammo dopo grammo negli anni, da verace e sanguigno uomo del Sud che ha assorbito l’operosità torinese: la pochezza dei mezzi, la latitanza della qualità non sono un ostacolo insuperabile o un paravento alla sconfitta, ma possono addirittura essere un’opportunità se tutto è irrorato dalla mistica del gruppo, dall’organizzazione maniacale, dagli schemi metabolizzati a memoria, da una certa rabbia, dal mutuo soccorso tra commilitoni, da una specie di inflessibilità ideologica, dall’identificazione nell’allenatore-demiurgo, nel progetto, nel collettivo. Il tutto espresso a un livello superiore - per valore intrinseco - alla semplice somma dei singoli, perché la banda contiana è molto più di Buffon+Bonucci+Eder+Pellè e ogni ingranaggio rende al massimo, persino oltre ogni aspettativa. E già s’è visto. “Squadra” e “inflessibilità”: roba da alieni per un Paese che conosce solo vette o depressioni, individualismi, uomini soli al comando o carestie, e che nel mezzo frequenta l’espediente, il catenaccio, palla-lunga-e-pedalare, l’improvvisazione. Perché il contismo non è difensivismo all’italiana, è invece calcio fatto di esattezza, cura del dettaglio, aggressività, innovazioni tattiche e umiltà da provinciale quando occorre. È attacco e spettacolo, come s’è visto al Bari e alla Juventus e dunque quando la materia prima lo consentiva: questa Nazionale forse lo permette meno o poco, ed è saggio essere duttili. È senso del limite senza porsi mai limiti. Ed è emblematico che tutto ciò - antitetico rispetto alle classiche pecche meridionali - sia decretato da un uomo meridionale in ogni cosa, persino in quella parlata inconfondibile.

Dicevano: è la Nazionale più avara di talento dal dopoguerra ad oggi, il movimento calcistico italiano è appassito del tutto, il blocco Juve è spremuto come un limone, gli attaccanti sono marginali, panchinari. E poi l’allenatore, dannazione: non ha esperienza internazionale, è un esagitato, ha la testa ai milioni del Chelsea, è un mercenario. «Non si può, dotto’. Non si può nemmeno superare il girone, dotto’». Nonsipuotismo. Antonio l'iconoclasta, però, ha il fuoco sacro e con quel fuoco ha infettato anche i suoi ventitré azzurri, che in una specie di trance lo seguirebbero pure all’inferno. Un ipnotista dal carisma magnetico. E fa quasi paura vederli trasformati, quei giocatori, al punto da parlare come il loro allenatore, con fede incrollabile in una sorta di regola monastica e in se stessi perché “benedetti” dal capobranco: «abbiamo le palle quadrate», «abbiamo i coglioni», «non abbiamo ancora ottenuto nulla», «ragioniamo da squadra», «daremo il sangue», «il mister ci chiede di». Una dedizione quasi calvinista alla missione e alle istruzioni del capo: anche qui, materiale inedito per un Paese spesso troppo rabberciato, molle.

C’è molto di meridionale però nel contismo militante, ed è una parola che il ct non smette mai di sillabare: fame. La fame è la benzina del suo calcio, a volte anche il suo limite perché (come s’è visto in passato, tipo nelle Champions juventine) un po’ paralizza: la fame, così, da necessità fisiologica diventa impellenza dello spirito, una specie di bussola. Come se ci fosse sempre un credito da riscuotere, un gradino da scalare, qualcosa da dimostrare, un’ambizione da divorare, come se la vittoria fosse sempre una rivincita verso un nemico. I gufi, i detrattori, gli infedeli, chiunque. Un “noi” (la squadra) contro “loro”. Non esiste buonismo nel contismo. Esistono solo tenebre e sudore, morsi della fame, e capacità di valorizzare il capitale a disposizione: come le massaie meridionali d’un tempo, costrette a rimestare con impegno ciò che c’era nella povera credenza, e a inventarsi piatti come la melanzana ripiena, una specie di archetipo (la melanzana farcita di se stessa, senza carne o prosciutto). Si può e si deve, altro che nonsipuotismo. Ecco: le melanzane ripiene di Conte sono per esempio un centravanti dimenticato dalla serie A (Pellè), una seconda punta criticata da tutti (Eder), un attaccante di riserva della Juve (Zaza), persino i “bastardi” della difesa (Barzagli-Bonucci-Chiellini) carichi di onori e trofei, ma che rappresentano una specie di madeleine del contismo bianconero, il suo laboratorio più emblematico. I “bastardi” nacquero o risorsero con lui, quando il salentino fece la rivoluzione.

Squadra, gruppo. Non per scelta, ma quasi per condanna. Squadra magnificamente incompleta, imperfetta, che in fondo sa anche di bottega. E poi organizzazione, perfezionismo che è altro dalla perfezione. E siccome nel contismo al concetto deve corrispondere sempre il segno, a bordocampo il ct è la solita scheggia, si sbraccia, urla per un sincronismo saltato, disegna traiettorie per indicare movimenti come se in mano avesse un joypad di una playstation grande 90x120 metri per manovrare tutti i giocatori, un po’ Sacchi nella maniacalità, un po’ Lippi nell’allenare cervelli, un po’ Trapattoni nel caricare, mentre a fine partita ha la voce perennemente roca, gli occhi stralunati, l’eloquio da battaglia «perché sì, ho letto più volte “L’arte della guerra” di Sun Tsu» - trattato cinese del VI secolo a.C. e pietra miliare della strategia bellica. Come un’apocalisse: tanto italiano e meridionale nei modi, nell’involucro, e tanto non-italiano e non-meridionale nella spasmodica e ossessiva ricerca del limite. E nel suo superamento.
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