Nedo Sonetti, tra passato e presente: «L'ossessione per la costruzione dal basso mi fa diventare matto»

Nedo Sonetti in panchina
Nedo Sonetti in panchina
di Piergiorgio Bruni
4 Minuti di Lettura
Giovedì 8 Aprile 2021, 15:56

È tra i decani del mondo del calcio nostrano. Oltre mille panchine tra i professionisti, una ventina le squadre allenate, cinque promozioni nella massima serie e una sfilza di giocatori lanciati tra serie A e B. Nedo Sonetti, 80 anni lo scorso febbraio, toscanaccio di Piombino, ancora si diverte. E fa divertire con la sua spontanea semplicità. Un uomo d’altri tempi, di un mondo “pane e salame” che ormai, purtroppo, esiste solamente negli occhi e nei racconti di chi l’ha vissuto. Un pallone più a misura d’uomo e di uomini. Veri. Dove la tattica era importante, ma non sfociava nel fanatismo dogmatico di chi, oggi, grazie anche a una comunicazione mitomane crede di aver inventato il giuoco del calcio.

Le piace il calcio moderno?
«Rispetto a quando allenavo è differente dal punto di vista dell’organizzazione, soprattutto per via di un pressing più ordinato. Per il resto, in linea di massima, non è cambiato molto. Però c’è una cosa che mi fa diventare veramente matto».

Quale?

«Quando vedo alcune squadre far partecipare anche i portieri alla manovra d’impostazione del gioco. È assurdo, perché li mettono in condizione di commettere degli errori madornali».

Quindi, a cosa serve la costruzione dal basso?
«Esisteva anche ai miei tempi, ma in maniera diversa rispetto a quella attuale. I rischi che le squadre si prendono oggi sono maggiori: quel tipo di impostazione viene provata pure nel momento in cui gli avversari pressano molto alti. E, di conseguenza, per attuarla in modo proficuo, ci vogliono giocatori dotati di ottima tecnica e velocità di pensiero».

Perché si preferisce ripartire dalle retrovie piuttosto che tentare l’uno contro uno?
«Le squadre moderne tendono a privilegiare l’impostazione dalle zone arretrate del campo per attirare il pressing avversario e avere più spazi nella fase offensiva. Se tutto ciò venisse fatto solamente in alcuni momenti della partita, e non costantemente, potrebbe essere una soluzione valida. In caso contrario, gli avversari prima ti studiano e poi ti attaccano mettendoti parecchio in difficoltà».

Il livello tecnico del calcio sta crescendo o diminuendo?
«La velocità sta aumentando. Un tempo, però, c’erano dei giocatori che non avevano nulla a che vedere con quelli di adesso (ride, ndr)».

Come si troverebbe con i giocatori di adesso?
«Bene, perché sono persone intelligenti. Anche se alcuni sono strapagati, l’importante è riuscire a tenerli a bada».

Se fosse ancora in panchina, a prescindere dalla rosa a disposizione, che tipo di modulo proporrebbe?

«Ultimamente si vedono molte squadre schierare cinque difensori, ma quel tipo di scelta non mi garba.

Ho sempre optato per un classico 4-3-3 e lo farei tutt’ora».

Ha qualche rimpianto da allenatore?
«Sono stato vicino a guidare grandi squadre, tuttavia non ci sono mai riuscito. Fare l’allenatore, però, non significa solamente andare con un fischietto in mezzo al campo e far correre i giocatori, bisogna anche parlare con loro e curare ogni minimo dettaglio».

Qual è stata la piazza più difficile in cui ha lavorato?
«Ho allenato parecchie squadre, da Nord a Sud, e ognuna presentava un ambiente difficile e abbastanza ‘infuocato’. Ricordo, ad esempio, che l’esperienza al Palermo di Zamparini è stata la più complicata».

Le è mai capitato di fronteggiare problematiche comportamentali di un suo giocatore?
«Sono circostanze che si vedono ovunque, poiché capita di trovare personaggi con una personalità più accentuata. In qualche occasione, comunque, mi è capitato ma sono stato abbastanza bravo a mantenere la calma (ride, ndr)».

Qual è stato il calciatore più forte che ha allenato?

«Ne dico due: Donadoni e Zenga».

Affidare la Juventus a Pirlo è stato un azzardo?

«Sì, perché la Juventus ne aveva uno perfetto due stagioni fa: Allegri. Sostituirlo prima con Sarri e adesso con Pirlo non è stata una scelta giusta. Per fare l’allenatore non serve per forza essere stati dei grandi giocatori, bisogna essere capaci di guidare un gruppo di uomini».

Che cosa ne pensa di Paulo Fonseca?
«Non amo parlare molto dei colleghi, tuttavia mon riesco a capire come mai non si punti maggiormente su profili italiani».

Il Campionato è virtualmente chiuso?
«L’Inter, salvo clamorosi ribaltoni, sarà campione d’Italia».

E chi va in Champions League?

«Sicuramente andrà l’Atalanta, la squadra che esprime il calcio più europeo tra le big. La Juve, invece, dovrà stare molto attenta».

La Roma può sognare l’Europa League?
«La squadra è ottima, purtroppo però ha troppi alti e bassi. La mancanza di personalità è l’elemento che si nota a primo impatto, visto che non conosco le dinamiche interne allo spogliatoio. Come invertire la rotta? Servono giocatori dotati di attributi».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA