Glasgow Rangers campioni di Scozia 10 anni dopo il fallimento, l'ex bomber Marco Negri: «Una gioia fortissima»

Marco Negri con la maglia dei Glasgow Rangers
Marco Negri con la maglia dei Glasgow Rangers
di Piergiorgio Bruni
5 Minuti di Lettura
Giovedì 11 Marzo 2021, 15:43 - Ultimo aggiornamento: 15:48

Dalla provincia italiana fino in Scozia. A Glasgow, dove in 3 anni conquistò tutti. Ricevendo affetto, stima e gratitudine. Marco Negri, milanese classe 1970, è nell’olimpo dei giocatori più amati tra quelli che hanno indossato la maglietta dei Rangers. A Ibrox Park, praticamente appena atterrato, nella stagione 1997/’98, ha vinto la classifica marcatori mettendo a segno 32 reti. Un’enormità per un giovanotto proveniente dal Perugia. A distanza di quasi 25 anni, la maglietta dei Light Blues è ancora una seconda pelle per lui. Un legame fortissimo, che lo emoziona come la prima volta, e lo fa esultare appassionatamente per la recente conquista della Scottish Premiership da parte dei Rangers guidati da Gerrard.

Quant’è emozionato per il titolo appena conquistato dai suoi Glasgow Rangers?
«Una gioia fortissima, sono davvero felice. Dopo 10 anni di problemi e confinamento nelle categorie più basse del calcio scozzese, il club è riuscito prima a ritornare in Premier e poi a ridurre il gap con le più forti. Ha trionfato in una stagione particolare, quella che avrebbe dovuto portare il decimo titolo di fila al Celtic».

Steven Gerrard ha fatto un capolavoro. Diventerà un top manager?
«È stato l’uomo guida della squadra portando uno spirito vincente. Ha costruito un ottimo team, dominando il campionato e riuscendo a gestire i momenti difficoltà. Inoltre, nonostante la giovane età, sa come muoversi con la stampa, il gruppo e tutte le normali problematiche annesse».

Sembra che a Liverpool lo tengano sott’osservazione.

«Infatti, in questo finale di stagione, mi auguro che i Reds tornino a vincere perché se dovesse saltare Klopp, molto probabilmente, Steven (Gerrard, ndr) verrebbe richiamato alla base».

Per la terza volta viene interrotta una striscia di 9 campionati consecutivi, il decimo sembra una chimera. È soltanto una casualità?
«In gran parte sì. È capitato anche al sottoscritto, con la maglia dei Rangers, di vivere una beffa così cocente. E ricordo pure quanto i tifosi fossero gasati, perché saremmo entrati nella storia. Tutte queste aspettative, però, creano molta pressione intorno al club».

Che cosa ha significato il fallimento dei Rangers?
«I Rangers sono la squadra con più successi al mondo, con milioni di tifosi, e dover affrontare piccoli club in stadi minuscoli è stata dura. La programmazione fatta, però, è stata incredibile. In questi ultimi 10 anni c’è stata una rinascita che ha coinvolto tutti: dagli allenatori ai tifosi».

Celtic e Rangers nella Premier League inglese potrebbero portare giovamento alle casse dei club e alla competitività del torneo?
«Sono discorsi vecchi e che si fanno da anni. Quando giocavo lì già se ne sentiva parlare, ma non so se realmente si possa realizzare: sono un simbolo per la Scozia per l’intera Premiership.

Sono convinto, comunque, che avrebbero ottime potenzialità pure nel torneo inglese, comunque non credo avverrà in tempi stretti».

Dopo la parentesi al Perugia che cosa l’ha convinta a lasciare l’Italia?
«Un’esperienza all’estero l’avevo sempre sognata. In quegli anni eravamo in pochi a volerla fare, tuttavia ho voluto prendere la palla al balzo: sia per l’offerta economica irrinunciabile, sia per possibilità di partecipare alla Coppa dei Campioni. Giocare in una competizione europea così importante era una chance che non avrei avuto in Italia vista l’organizzazione di squadre come Milan, Inter e Juventus».

Com’è stato vincere la classifica marcatori in Scozia?
«Avrei barattato tutti i miei gol per vincere il titolo del ‘Ten in a row’ (decimo consecutivo, ndr) con i Rangers. Non ci siamo riusciti, ma è stata ugualmente una bella sensazione».

Com’erano le sortite nei pub assieme ai compagni di squadra?
«Funzionava così: ci allenavamo la mattina e, per il resto della giornata, eravamo liberi. Dopo un paio settimane dal mio arrivo in Scozia, il gruppo squadra, all’interno del quale c’era Gascoigne, mi invitarono in un locale. Non scendo nei dettagli, ma loro erano dei professionisti (ride, ndr) nei pub, mentre io un dilettante. Pertanto, da quel momento, ho cercato altri modi per spassarmela nei momenti liberi».

Lei è sempre apparso come un tipo timido e riservato. Come ha vissuto quegli anni di gloria?
«Non è stato facile. Ho trascorso i primi mesi in Scozia assieme a un folto gruppo di persone che mi seguiva ovunque andassi. Era un salto di livello, perché ero riconosciuto da tutte le parti, e da un lato mi faceva piacere. Dall’altro, però, per carattere un pochino soffrivo la cosa».

Che differenze ci sono tra il Campionato Italiano e quello Scozzese?
«Sono arrivato in Scozia e ho avuto la fortuna di giocare con gente del calibro di Laudrup e Gascoigne: talenti che hanno mostrato il loro valore in tutta Europa. Ogni torneo ha una sua specificità: quello italiano è tattico, quello spagnolo è tecnico, mentre quello scozzese ha un agonismo di altissimo livello. C’era poca strategia, perciò una squadra che andava sotto si sbilanciava tantissimo e venivano fuori dei risultati da pallottoliere».

Poi, però, qualcosa è cambiato. Non trova?

«Sì, concordo. La trasformazione è avvenuta con l’arrivo di allenatori europei del calibro, ad esempio, di Dick Advocaat. Un grande stratega olandese che, con lungimiranza, ha portato il gioco palla a terra e un approccio piuttosto diverso alla professionalità. Vedere, oggi, i Rangers agli ottavi di Europa League significa che qualcosa è davvero mutato».

Quest’anno, un’italiana riuscirà a vincere una coppa europea?
«È molto difficile, ci sono squadre attrezzate decisamente meglio delle nostre».

© RIPRODUZIONE RISERVATA