Un anno senza Kobe Bryant

Kobe Bryant con i colori dei Los Angeles Lakers
Kobe Bryant con i colori dei Los Angeles Lakers
di Fabrizio Fabbri
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Martedì 26 Gennaio 2021, 12:42 - Ultimo aggiornamento: 13:37

«Celebrate la vita e non la morte». Non è solo un appello, è un urlo  quello che Vanessa Bryant consegna al giorno della ricorrenza della morte di Kobe. E’ passato un lunghissimo anno da quando, in Italia era domenica pomeriggio del 26 gennaio 2020, i primi notiziari hanno lanciato la break news. “E’ morto Kobe Bryant”. Il silenzio che ha accolto la notizia nelle redazioni, nella case, in qualunque angolo del pianeta, è stato pari allo stupore. Per lasciare poi spazio al dolore e alla disperazione. Un elicottero alzatosi dalla casa del campione che aveva trascinato nella leggenda i Los Angeles Lakers si era schiantato sulle colline di Calabasas, il quartiere dei vip della città californiana, strappando alla vita non solo Kobe ma anche l’amata figlia Gianna, e altre sette persone. Doveva portarli a quella che allora si chiamava Mamba Sports Academy, a Thoousand Oaks, una scuola di basket che Bryant aveva fondato e dove la figlia Gianna, quella che sembrava aver ereditato il sacro fuoco del campione dall’amato papà, si allenava. Dopo la tragedia Mamba è stato tolto dal nome della palestra, in segno di rispetto. Perché immaginare quella scuola senza Kobe era impossibile, così come da quel maledetto 26 gennaio di un anno fa immaginare il basket senza Kobe è terribilmente difficile.

Aveva già appeso le scarpe al chiodo, il 13 aprile 2016, dopo un’ultima stagione che si era trasformata in un tour celebrativo. Non c’era campo dove Kobe non avesse ricevuto il dovuto tributo. L’odiato avversario nel passo d’addio allo sport agonistico era diventato il campione di tutti, tanto che un fan di Boston, poco prima della sua ultima apparizione in canotta e calzoncini al Garden, non esitò a dedicargli una accorata lettera che si apriva con “Caro Kobe Bryant ti odio…” ma chiudendosi, dopo un piccolo Bignami di ricordi perdenti e vincenti legati alle acerrime fide tra Celtics e Lakers,“…Perciò prima che tu te ne vada, voglio solo ringraziarti per esser stato molto di più che un gran giocatore di pallacanestro. Per un'intera generazione di fans NBA, tu sei la pallacanestro. Non posso credere che lo sto dicendo... ma mi mancherai davvero tanto…Un fan dei Celtics che non ti ha apprezzato abbastanza”. Può bastare per capire cosa sia stato e perché la pallacanestro di ogni lato del pianeta non riesca a suturare la terribile ferita della sua morte? In Italia ancora di più. Perché Kobe è un pezzo di noi.

Piccolo, riccioluto è sbarcato a soli sei anni a Rieti per seguire papà Joe, una vera e propria macchina da canestri. Poi Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, fino ai tredici anni quando il genitore disse basta e tutta la famiglia Bryant fece ritorno negli Usa per aprire le porte a una carriera pazzesca. In Italia Kobe ha imparato a giocare a basket, ha appreso l’arte dei fondamentali, si è innamorato della nostra cucina e del Milan. E poco importa che un saccente professore di educazione fisica di Reggio Emilia emise questa sentenza: «troppo mingherlino, non farà strada nello sport». Di strada invece ne ha fatta e tanta. Bruciando tappe e accendendo cuori. Così forte, così dotato da saltare a piedi pari dalla high school, Lower Marion High School  fino al dorato mondo della Nba. Dove inizialmente è stato quasi snobbato, tredicesima scelta del draft del 1996 chiamato da Charlotte che commise uno dei più grandi errori della storia: scambiarlo con i Los Angels Lakers per avere il centro serbo Vlade Divac.

Dalle parti di Malibù non hanno mai finito di ringraziarli perché da quel momento è nata la leggenda.

Ha vinto cinque volte l’anello di campione con i gialloviola, tre medaglie olimpiche con la Nazionale Usa, due titoli di Mvp delle finali, uno della regular season e una infinità di record personali. Kobe è stato un personaggio unico, amato e temuto. Rincorreva il sogno di emulare il suo idolo Michael Jordan e ci è ben riuscito. Una sola macchia, una nube nella sua vita privata per una accusa di molestie sessuali nel 2003 da parte di una cameriera di un hotel, poi ritirata. Poteva essere l’inzio della fine e invece, assieme alla moglie Vanessa e aiutato dal mondo del basket Kobe riprese la sua strada. Che, pur avendo smesso in quell’aprile del 2016, continuava a percorrere senza sosta. Poi quell’elicottero che si alza in vola, la nebbia, le colline e lo schianto.

Siamo tutti orfani di Kobe, della sue giocate del suo sorriso. E piace credere che non sia un semplice caso che, pur nella bolla protettiva della terribile stagione del virus,  i Lakers siano tornati a vincere un titolo per dedicarlo a lui. Nella Nba, quando si apre una nuova stagione il commissioner consegna l’anello, simbolo della vittoria, ai giocatori della squadra campione. Per celebrare il momento LeBron James pubblicò su instagram, era lo scorso 20 dicembre, una foto ovviamente ritoccata con Kobe che lo guardava sorridente mentre infilava l’anello del successo al dito. Commentando così: «Quello che ho sentito questa notte quando ho preso questo anello dalla custodia. Mi Manchi fratello. Mamba4life». E ciò che sentono oggi i tifosi di tutto il mondo è testimoniato dalle centinaia di iniziative di ricordo. Murlaes e graffiti da Los Angeles, fino all’Uganda, il Giappone per arrivare all’Italia. Piazze, come a Reggio Emilia, a lui dedicate. Il ricordo non può morire. Kobe sorride, con il suo ghigno vincente, e guarda questo mondo un po' diverso che ha lasciato con l’amata Gianna. E il suo sorriso, ha ragione la moglie Vanessa, è vita. E tale resterà.

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