Due anni senza Bryant: il ricordo del Mamba che con la sua "mentality" ha cambiato per sempre lo sport

L'ex stella dei Los Angeles Lakers moriva il 26 gennaio 2020 in un incidente in elicottero. Oggi, nell'anniversario del tragico evento, il mondo continua a omaggiarlo.

Kobe Bean Bryant, scomparso il 26 gennaio 2020
Kobe Bean Bryant, scomparso il 26 gennaio 2020
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Mercoledì 26 Gennaio 2022, 23:39

Due anni fa moriva Kobe Bryant. Insieme a lui la figlia Gianna - 13 anni - e altre sette persone, in un terribile incidente aereo avvenuto in California: l'elicottero sul quale viaggiavano si schiantò durante una nebbiosa mattina di fine gennaio tra le colline di Calabasas, a nord-ovest di Santa Monica. Una perizia effettuata mesi dopo dal National Transportation Safety Board fece emergere le responsabilità del pilota, il quale ignorò il divieto di attraversare una perturbazione perdendo così fatalmente l'orientamento.

Per gli appassionati di basket e di sport è impossibile dimenticare cosa stessero facendo quel 26 gennaio 2020, nel momento esatto in cui probabilmente un messaggio di un amico sul cellulare li informava dell'accaduto e con le prime notizie che cominciavano a rimbalzare su Twitter. In Italia era domenica sera e l'attenzione rivolta al posticipo serale di Serie A tra Napoli e Juventus.

 

Kobe l'italiano e l'epopea ai Lakers

Il "Black Mamba" - questo il celeberrimo soprannome che prende spunto da una delle scene più celebri della pellicola di Quentin Tarantino "Kill Bill" - ha segnato la storia della pallacanestro e dello sport in maniera indelebile. Il suo nome e la sua storia sono legati indissolubilmente all'Italia, dove trascorse l'infanzia al seguito di papà Joe Bryant, cestista che ha militato nel campionato di casa nostra con le canotte di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggiana. Otto anni nello "stivale" che hanno formato il piccolo Kobe, dove ha effettuato i primi tiri a canestro e in cui si è innamorato di questo Paese, legame che non ha mai nascosto e anzi ha rimarcato ad ogni occasione utile: era risaputa ad esempio la sua grande passione per il calcio e il Milan e l'ottima conoscenza della lingua. Tornato negli States, dopo gli anni alla Lower Merion High School - dal 1994 al 1996 - l'approdo nella National Basketball Associatio, senza passare dall'università: in venti anni riscriverà la storia della lega con la maglia dei Los Angeles Lakers, vincendo tutto ciò che era possibile vincere e infrangendo tutti i record che era possibile infrangere. Cinque titoli NBA (2000-2001-2002 e 2009-2010), 1 premio di MVP della stagione, 2 volte miglior giocatore delle Finals, 18 convocazioni all'All Star Game. E ancora gli ori olimpici (2) conquistati con Team USA: Pechino 2008 e Londra 2012, quest'ultima la rappresentativa a stelle e strisce che più si avvicinò per l'immaginario collettivo al Dream Team del 1992 di Michael Jordan. Già, Jordan: l'eterna ossessione di Bryant. Una carriera intera passata inseguendo il suo mito, imitandone maniacalmente le gesta, i movimenti, le giocate, l'atteggiamento in campo e fuori. E se la discussione tra chi sia il migliore di sempre lascia il tempo che trova, è innegabile come se il 23 dei Chicago Bulls si sia preso gli anni '90, il 24 gialloviola abbia segnato con la sua firma la prima decade del nuovo millennio. Phil Jackson il suo mentore a LA: coach Zen, l'uomo degli "eleven rings", ha forgiato il gioiello grezzo di Philadelphia smussandone prima gli angoli, gestendone poi l'ego e inserendolo infile in un contesto squadra che a volte faticava a comprendere. L'"io" e il "team": se con Shaquille O'Neal si è diviso e conteso lo spogliatoio, Pau Gasol, Ric Fox, Derek Fisher, Lamar Odom e Sasha Vujacic sono stati i fidi scudieri nel cammino verso il Partenone del basket. Il rapporto "odi et amo" con Shaq passò alla storia: il Black Mamba e The Big Aristotle; insieme tre titoli di fila per un three peat che ai gialloviola mancava dal 1954. Al pari di Kareem Abdul-Jabbar e Earvin Magic Johson Jr.. è diventato il simbolo della storia della franchigia californiana e a lui sono legati praticamente tutti i record individuali tra i lacustri. Leggendaria la partita degli 81 punti contro i Toronto Raptors (seconda miglior prestazione di sempre per punti segnati), così come il suo ultimo ballo - contro gli Utah Jazz - dopo anni difficili in cui "non ci girava bene": tutti lo attendevano in quella notte di aprile e lui ha risposto con 60 punti tondi tondi e vittoria allo Staples Center, nel "party" di fine carriera dove c'era praticamente tutta Hollywood ad acclamare quello che è stato il più hollywoodiano tra i cestisti. "Sono cresciuto come un patito fan dei Lakers", dirà nel suo discorso di commiato (chissà quanti ne sono nati grazie a lui) prima di pronunciare quel "Mamba out" che oggi assume tutt'altro, malinconico, significato.

 

L'eredità della "Mamba Mentality"

Bryant ha rappresentato per tutta la vita il significato della parola "eccellenza", dentro e fuori dal campo. Una macchina da business, collaborazioni milionarie con gli sponsor, uomo immagine e imprenditore. Nel suo palmares figura addirittura un Premio Oscar: la statuetta d'oro vinta nel 2017 con il cortometraggio animato "Dear Basketball", ispirato alla sua lettera scritta al basket poco prima del ritiro.

I giorni dopo l'improvvisa morte hanno testimoniato l'immenso affetto per Kobe da parte del mondo intero: fiumi di gente accorsi fuori lo Staples in un lungo, interminabile pellegrinaggio, messaggi di cordoglio sincero da parte di sportivi, celebrità e autorità, e ancora murales comparsi in suo onore nei campetti di ogni angolo del globo. L'evento "Celebration of life" tenutosi in suo onore è stato il degno tributo alla vita e alla carriera di un campione: da Beyoncé a Alicia Keys, da Jimmy Kimmel agli elogi funebri di Michael Jordan, Shaquille O'Neal e della moglie Vanessa Laine Bryant. Un dolore che ha straziato il mondo, il suo: Kobe lascia l'amata "Donna" Vanessa e le figlie Natalia, Bianca e Capri. Con lui al momento della tragedia l'altra figlia, Gianna Bryant. Sempre al suo fianco, per tutti "Gigi" era destinata ad una carriera di successo nel mondo del basket: stesso sguardo vincente del padre palla in mano, stessa maniacalità per i dettagli del gioco. Negli ultimi mesi di vita li si vedeva spesso a bordo campo a studiare le mosse delle stelle NBA: lui a gesticolargli schemi, lei ad osservare attentamente. Tutti erano certi che sarebbe diventata forte come papà, se non addirittura di più.

Kobe Bean Bryant se n'è andato all'improvviso 2 anni fa, un tempo così vicino e così lontano, quando ancora la parola coronavirus non esisteva e di Wuhan in pochi sapevano la conoscenza. Oggi il suo ricordo rivive nella generazione di cestisti che sono cresciuti imitando le sue gesta - da Trae Young degli Atlanta Hawks a Devin Booker dei Phoenix Suns - e nel cuore di milioni di fan. Lo scorso maggio è stato inserito nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, in una delle cerimonie più commoventi della storia del prestigioso riconoscimento. A tutti il numero 24 ha lasciato in eredità il suo marchio di fabbrica, la "Mamba Mentality": «Significa puntare sempre al massimo e guardare avanti. Il punto focale è la curiosità che ognuno di noi deve avere dentro di sé nel come poter migliorare, nella ricerca delle diverse vie per il successo, nel desiderio di aspirare sempre all'eccellenza. Mamba mentality è guardare avanti».

Avanti, oltre le sconfitte brucianti subite, oltri gli infortuni terribili patiti (come quello al tendine d'Achille - il più grave della sua carriera - che non gli impedì però di realizzare due tiri liberi prima di uscire dal campo). Il morso del Mamba continua a lasciare il segno due anni dopo, per sempre.

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