Pallavolo, Andrea “Zorro” Zorzi: «Ho vinto tutto, ma sono ancora un inguaribile romantico di agonismo»

Andrea Zorzi, a teatro, durante la rapprensentazione de "La leggenda del pallavolista volante".
Andrea Zorzi, a teatro, durante la rapprensentazione de "La leggenda del pallavolista volante".
di Piergiorgio Bruni
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Venerdì 26 Febbraio 2021, 17:39

Fenomeno all’interno di una generazione di fenomeni. In carriera, tra club e Nazionale di pallavolo, ha vinto praticamente tutto. Andrea "Zorro" Zorzi, 55 anni, da Noale, rappresenta l’uomo universale, poliedrico nella sua ricerca costante della perfezione. Non assoluta, ma personale. Un fìo che è stato atleta nelle più pura eccellenza del termine, modello per i ragazzi degli anni '90, coscienzioso giornalista nel post carriera e poi pure intraprendente attore di teatro. Oggi, su Sky Sport, con competenza e pacatezza, commenta le gare delle squadre italiane che giocano in Champions League.

Andrea, com’è il mondo della pallavolo al tempo del Covid-19?

«L’anno scorso, come tutto il mondo dello sport, c’è stata una gran paura e il campionato è stato sospeso a febbraio e se n’è riparlato a settembre, quando sono riprese le attività. Ora, almeno a livello nazionale, ci si sta muovendo con le solite precauzioni: tamponi e controlli. A livello europeo, invece, per evitare tanti spostamenti, hanno organizzato dei ‘concentramenti’ con gruppi formati da 4 squadre che giocavano per 3 giorni consecutivi».

A proposito di Europa: è ricominciata la Champions League con le gare dei quarti. Sia tra gli uomini sia tra le donne, le italiane sono favorite per la vittoria del trofeo?

«In entrambi i casi, in finale, quasi sicuramente ci sarà una formazione nostrana. In campo femminile, ad esempio, Conegliano non perde da 49 gare consecutive ed è la candidata numero 1 per il successo finale. Tra i maschi, discorso simile: una tra Perugia, Modena e Trento con ogni probabilità arriverà in fondo».

La sua carriera sarebbe stata la stessa nella pallavolo moderna?

«È molto complicato perché il mondo cambia velocemente, ora gli atleti sono parecchio performanti e, ad esempio, a livello fisico hanno una maggiore esplosività in attacco. Tutti gli sport cambiano, anche se non sono così sicuro sia più bello rispetto a quando giocavo».

Il volley è migliorato o peggiorato con l’avvento del rally point system?

«All’inizio, come tanti miei compagni, ero un po’ dubbioso. Allo stesso modo, quando introdussero il libero, sembrava un modo per rendere più inclusiva la pallavolo. E dare la possibilità di giocare anche a qualche atleta non altissimo. Di fatto, le intenzioni erano buone, ma le conseguenze sono state diverse. Diciamo che la semplificazione del sistema di punteggio, la velocità e la potenza hanno modernizzato il volley».

Lei ha fatto parte della cosiddetta generazione di fenomeni: eravate più temuti o più odiati?

«Non saprei, probabilmente più rispettati. In quel fantastico gruppo c’era un’enorme voglia di lottare in ogni singola partita, di migliorare, di raggiungere i successi e non è mai mancata la stima sia verso di noi, sia verso gli avversari. Guardo al passato con piacere, ma è inevitabile perché non sempre si riesce ad avere una prospettiva neutra. Vorrei, comunque fare una piccola precisazione».

Prego.

«Julio Velasco (il Ct dell’Italia dal 1989 al 1996, ndr) non ama la definizione ‘generazione di fenomeni’ perché si tende a pensare che sia una situazione inarrivabile e non più riproponibile. Non è così, si può e deve programmare e cercare di arrivare a quei livelli».

Zorzi, a quale successo è maggiormente legato?

«È difficile pensarne uno soltanto, perché ci sono emozioni diverse. Nel 1989 l’Oro a Stoccolma (Europei, ndr) e l’anno successivo quello a Rio de Janeiro (Mondiali, ndr) sono le vittorie più impreviste e godute emotivamente.

Intendo senza filtri, perché non ce le aspettavamo, una sorta di sogno da bambino che si realizza. Ma non posso negare neppure che il trionfo arrivato nel 1994, sempre ai Mondiali (Atene, ndr), è stato splendido perché ha rappresentato la conferma di quanto fatto precedentemente. La gioia delle prime due parte dalla pancia, quest’ultima invece dalla testa». 

Da Julio Velasco a Gian Paolo Montali. Avrebbe mai immaginato di vederlo lavorare con successo anche in altri sport?

«Il nostro rapporto non è stato mai facile, ma gli va riconosciuto che ha avuto grande abilità nel sapersi adattare. Penso che abbia fatto una scelta corretta, quando gli fu proposto di entrare nel mondo del pallone. Credo che Gian Paolo, come tutte le persone abili, sia bravo ad adattarsi al contesto in cui si trova. Fa le cose giuste al momento giusto e, a volte, passa sopra ai sentimenti perché l’obiettivo principale lo richiede. In fondo, comunque, è un uomo coraggioso».

È stato più complicato diventare giocatore a 16 anni oppure studiare per imparare il ruolo di giornalista commentatore televisivo?

«Nella mia vita, numerose scelte hanno avuti inizi casuali. Ho cominciato a giocare a pallavolo perché ero molto alto e la palestra stava vicino a casa, ma ho vissuto grandi emozioni. Tanto nelle vittorie, quanto nelle sconfitte. Quando, però, ho sentito di non essere al massimo di non essere più un top player, ho smesso. E ho iniziato così la carriera da commentatore».

Qual è l’obiettivo che ancor non ha raggiunto?

«Visto il mio passato da atleta e la forma mentis che si è costruita, direi la competitività. Ecco, temo di essere un inguaribile romantico di agonismo. E col passare degli anni, da persone adulte, purtroppo, può diventare un po’ un problema».

Qual è il suo rapporto con la famiglia?

«Sono sposato da molti anni con una ex ginnasta professionista (Giulia Staccioli, conosciuta ai Giochi Olimpici di Seul nel 1988, ndr) e abbiamo un figlio di 22 anni. Sono felicissimo di quello che abbiamo costruito e, con l'età che avanza, la loro importanza cresce sempre di più».

E con i suoi genitori?

«Molto forte pure con loro».

Giulia è più severa come moglie o come compagna di palcoscenico?

«È meravigliosa perché alterna bene i suoi ruoli. È una moglie affettuosa, esigente ed è l'unica persona al mondo che riesce a mettere in crisi le mie convinzioni. Talvolta esagerate. Come coreografa mi piace parecchio, perché quando mi racconta un’idea e poi la vedo realizzata, rimango sempre meravigliosamente sorpreso».

Zorzi, che rapporto ha avuto col successo?

«La popolarità e il successo sono amplificatori, nel bene e nel male. È piacevole prendere dei soldi, altrettanto essere riconosciuti, ma anche un po’ un problema. Il denaro è una complicità, così come la popolarità: quest’ultima, col passare del tempo, si è ridotta e si scoprono quelli che si possono considerare dei limiti».

La notorietà, quindi, può diventare un problema?

«Non nego sia piacevole, ogni tanto, essere riconosciuti da chi ha una certa età e poter parlare affettuosamente del passato. Tuttavia, qualche volta, il successo porta dubbi: non sai bene il motivo per cui le persone si avvicinano. Ti domandi se si interessino per come sei oppure per quello che rappresenti. E si genera, purtroppo, un pochino di sfiducia».

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