Vecchioni, cuore e destino in musica

Vecchioni, cuore e destino in musica
di Antonio ERRICO
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Domenica 18 Luglio 2021, 05:00

Forse si scrive soltanto per ritornare: in qualche luogo, con una creatura. Forse Roberto Vecchioni scrive soltanto per ritornare, e poi, dopo il ritorno, per ripartire, per ricominciare, con il desiderio di ritornare ancora e ripartire ancora. Finché c’è tempo per partire, finché c’è il tempo per tornare. Le sue canzoni, i suoi romanzi, sono storie di ritorni. Storie di una lucida e cercata nostalgia. Nòstos e àlgos: ritorno e dolore.

Allora ritornano gli amici, gli amori perduti, i compagni di strada che avevan gli occhi stretti a furia di guardare il sole, ritornano come ombre sul cuore silenziose e leggere, come visioni del sogno, fantasmi del tempo; si riprendono i giorni perduti, disorientano il caso, contaminano, falsificano, richiamano, seducono, illudono, strabiliano, affatturano. Raccontano verità irrilevanti e inutili, fantastiche finzioni e indispensabili menzogne; verità che non mutano i destini, finzioni e menzogne che forse aiutano a salvarsi la vita.

Oppure si estraneano, si separano dal mondo, seguono percorsi della mente che portano al deragliamento del pensiero; sono attratti dai labirinti della vita, dai grovigli delle passioni, dalle profondità della memoria, dalle zone d’ombra della storia, dai movimenti di concentrazione e dilatazione della luce, dai profumi, dalle voci, dalle storie fantastiche e dalla Storia concreta.

Ogni canzone è una discesa in interiore, uno sprofondamento nella dimensione dell’essere, un corpo a corpo con il proprio sentimento nei confronti dell’Altro, nei confronti di se stesso, con la propria esperienza di essere nel tempo, fino a diventare, in alcuni casi, pacata ma inclemente confessione. 
“Io non appartengo più”, per esempio, è l’espressione del momento di un passaggio, e ogni passaggio si porta dietro e dentro la consapevole convivenza di amore e dolore che s’impastano in un solo nucleo, si fanno una cosa sola, a volte fino al punto da non distinguersi più. 

Amore e dolore coinvolgono ogni sfera dell’emozione e della ragione, qualsiasi relazione: anche con quella che è la fisionomia dell’epoca, che l’uomo, l’intellettuale, il poeta Vecchioni vive con filosofica e intensa cognizione culturale e con umano disagio provocato per lo più dal banale, dall’effimero, dal qualunquismo, dalla mediocrità, dalla superficialità che dilaga, invade.

Si può tentare di non lasciarsi travolgere soltanto alzando intorno a sé argini di pensiero e di passioni. 

A volte, ascoltando certe canzoni, ci si chiede come si fa, com’è che si riesce a scavare tanto in fondo, come si può riuscire a trovare le parole per dire quello che per natura sarebbe indicibile, senza nemmeno far ricorso alla metafora, ma tirandosi le parole dalle viscere, rinunciando a qualsiasi forma di finzione, di mediazione, affidandosi esclusivamente all’armonia del verso, al suo equilibrio, ad una aderenza perfetta di significante e di significato. Scrive Vecchioni in una pagina di “Scacco a Dio”: “Ecco, Signore, cos’è una canzone. Cosa vi avevo detto? Gli uomini cantano quando le parole non bastano, quando non riescono a dirle, forse perché da sole sarebbero persino ridicole”. 

Forse non basta soltanto il mestiere per tutto questo; forse non basta saper combinare sapientemente le parole, né basta adorarle; probabilmente ci vuole una capacità di metterci il cuore dentro le parole, di metterci tutta la memoria e tutta la sensazione del destino.

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