Il Collegio 5, il prof di recitazione Patrizio Cigliano: «Il teatro dovrebbe entrare nelle scuole, la classe 1992 spregiudicata ed emozionante»

Il Collegio 5, il prof di recitazione Patrizio Cigliano: «Il teatro dovrebbe entrare nelle scuole, la classe 1992 spregiudicata ed emozionante» (credits Angela Caterisano)
Il Collegio 5, il prof di recitazione Patrizio Cigliano: «Il teatro dovrebbe entrare nelle scuole, la classe 1992 spregiudicata ed emozionante» (credits Angela Caterisano)
di Silvia Natella
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Mercoledì 16 Dicembre 2020, 15:15 - Ultimo aggiornamento: 15:53

Empatia è la parola che meglio di tutte contraddistingue questa edizione de Il Collegio, il format televisivo trasmesso da Rai 2 che si è concluso ieri con ascolti da capogiro. Gli studenti della classe 1992 l’hanno usata più volte nei loro temi e anche Patrizio Cigliano, il prof. di recitazione, racconta l’esperienza partendo proprio dell’empatia che si è creata durante le sue lezioni. «L’esperimento ha funzionato - spiega a Leggo - e ci sono stati momenti comici, ma anche molto toccanti».

La materia di recitazione è una novità assoluta nel programma, come è nata l’idea?

«La Rai ha voluto fortemente inserire la recitazione e il teatro tra le materie. Il format mi incuriosiva, ma quando mi hanno chiamato ho temuto di essere considerato un alieno in quel contesto, perché i ragazzi sono implacabili. E invece non ci sono state insurrezioni, facevano a gara per salire sul palco. C'era empatia. Il mio percorso è stato molto bello, ludico ma anche teorico». 

Qualcuno ti ha stupito particolarmente?

«Ho visto molta energia e gioia da parte di molti. Una buona metà dei ragazzi farebbe bene a studiare recitazione. C’erano persone con la giusta spregiudicatezza e che sanno gestire il proprio pudore. Poi c’erano anche persone che non potrebbero mai farlo questo mestiere perché hanno altri nodi da sciogliere sulla loro esistenza». 

Quanto è importante insegnare teatro agli adolescenti? 

«È importantissimo. L’Italia è un Paese in cui il teatro è purtroppo assente dalla scuola, mentre si studia in quasi tutto il resto del mondo. Quei pochi che si cimentano fanno male perché farlo fare dal prof. di religione o di italiano è sbagliato. Si tende ad allontanare i giovani dal teatro facendoli assistere a degli spettacoli che vengono percepiti come “mattonate” se non si è preparati. Il mio messaggio all’interno del format era proprio quello di trasmettere l’importanza della cultura in televisione e con una formula  popolare, non retorica e noiosa». 

Il teatro in tv è spesso soggetto a dei pregiudizi, come può sopravvivere nonostante il Covid?

«Il male del nostro teatro è che non è più popolare.

Ci sono dei pregiudizi perché si è troppo autoreferenziali, ma Shakespeare era un autore pop. Il teatro si fa dal vivo, ma se dovessimo pensare alla fruizione televisiva dobbiamo insistere sull’audiovisivo e su una recitazione moderna. Il teatro deve raccontare la vita di oggi e usare il linguaggio giusto. La maggior parte dei teatranti ha la puzza sotto il naso ed è decisamente restia a qualsiasi modernità. Noi siamo l’unico Paese al mondo in cui il rapporto tra repertorio e novità è sbilanciato. L’80% è per il repertorio, nel resto del mondo è il contrario. Infatti la drammaturgia contemporanea italiana, che è ottima, soffre. Il teatro ufficiale vive di ragnatele, è fatto da anziani per un pubblico di anziani».

Perché questo format ha tanto successo?

«Perché è leggero, divertente, ma ha un giusto dosaggio agrodolce. È giusto per la Rai perché fa del bene in un’ottica di servizio. Unisce, infatti, l’intrattenimento con il messaggio sociale, raccontando una generazione con le sue luci e le sue ombre».

Nell’anno in cui è ambientata questa edizione avevi 20 anni, come sono i ragazzi di oggi?

«Nel 1992 mi diplomavo all’Accademia Silvio d’Amico e iniziava la rivoluzione tecnologica. I ragazzi di oggi nascono con il cellulare in mano. Queste generazioni sono digitali, dell’immagine e anche della superficialità. Ai nostri tempi si pensava molto, prima di scattare una foto perché c’era il rullino, mentre oggi possiamo avere migliaia di immagini. Non c’è più la giusta cura e a volte nella ricchezza si perdono dei significati. A questi ragazzi il tuffo nel 1992 ha fatto vedere un altro mondo e qualcosa che ignoravano completamente». 

Cosa credi di aver imparato tu da questa esperienza?

«Ho imparato moltissimo, la più bella lezione è la prova provata che si può parlare di cultura e di teatro con ragazzi che non ne sanno niente, se si trova il linguaggio di comunicazione giusto. Io sono l’unico professore che ha chiesto e ottenuto di dare del tu agli studenti perché non potevo creare distanze se dovevano giocare con le emozioni».

Progetti futuri?

«Il mio inverno è tutto saltato perché i teatri sono chiusi. Sto cercando una produzione per un film che ho pronto da diversi anni e che è molto divertente. Continuo la mia attività di docente nella scuola di Massimiliano Bruno e faccio il doppiatore. Il teatro mi manca molto, anche se nessuno spettacolo dopo un anno di Covid potrà essere immaginato come prima. Il mondo è cambiato e il teatro deve aggiornarsi».

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