Parafrasando il titolo di una delle sue commedie musicali, «Gli attori lo fanno sempre» (una delle tante che lo ha visto a fianco di Gino Bramieri sotto il marchio della premiata ditta Garinei & Giovannini) si potrebbe dire «gli attori ce l’hanno sempre». Una passione. A volte anche due. Per Gianfranco Jannuzzo – agrigentino di nascita, romano d’adozione dall’adolescenza, milanese per residenza coniugale – sono la filatelia e la fotografia. Alla sua collezione di francobolli (un prezioso excursus nella storia postale) ha già dedicato una mostra, alla fotografia regala adesso il suo volume d’esordio da cacciatore di immagini, «Gente mia» (Edizioni Medinova, 198 pagine, 28 euro).
Tutte le passioni nascono per caso, Jannuzzo.
«Anche questa. Mi sono trovato in mano una macchina fotografica con la quale mi piaceva “cogliere l’attimo”. Le mie vittime, ad Agrigento, erano soprattutto parenti, amici, compagni di scuola. Che a un certo punto non ne poterono più di essere immortalati. Così mi dedicai a ritrarre angoli della mia città, personaggi, momenti di vita quotidiana. Per qualche tempo pensai anche che potesse diventare un mestiere ma in seguito, dopo aver scelto di fare l’attore, indirizzai l’obiettivo sui colleghi: la Falk, Turi Ferro, Lavia, il mio maestro Gigi Proietti. Sembrerà strano ma non ho mai fotografato Gino Bramieri con il quale pure ho fatto ditta per sei stagioni: di Gino, il mio nume tutelare, non ho nemmeno uno scatto».
Però ha continuato a fotografare la sua Agrigento, ogni volta che ci torna. Forse un risarcimento nei confronti di quell’adolescente “strappato” alla propria città.
«In verità non si trattò di uno “strappo”. Un giorno mio padre, il professore di Lettere Giuseppe Jannuzzo, riunì la famiglia attorno a un tavolo, ci disse che aveva riflettuto sul futuro di noi figli – eravamo cinque – e, avendo l’opportunità di farsi trasferire, avrebbe potuto scegliere una cattedra tra Palermo, Roma e Firenze. Accettammo ma ad un patto: che ogni estate, per le vacanze, saremmo tornati ad Agrigento. Così ci chiese una democratica votazione per alzata di mano. Io ero il maggiore, avevo 13 anni, la più piccola era una mia sorella nata da pochi mesi e io fui delegato ad alzare il suo braccino. Vinse Roma. Partimmo su un Maggiolino Wolkswagen in direzione della Capitale, verso casa nuova, borgata Centocelle».
Dunque, negli anni successivi, gli scatti agrigentini sono stati come un “diario dell’anima”.
«Sono stati, e sono, un rapporto mai interrotto.
L’idea del libro con le 102 foto a chi è nata?
«Forse la accarezzavo da tempo ma senza confessarlo, poi ne ho parlato con Angelo Pitrone, tra i più grandi fotografi italiani, agrigentino anche lui, che ne ha curato l’impaginazione. Ho voluto che fosse un libro siciliano anche nella realizzazione. L’editore è Antonio Liotta, medico anestesista che ha creato un reparto di Terapia del dolore – un’eccellenza nel Sud – all’ospedale San Giovanni di Dio ad Agrigento e che guida la sua Medinova a Favara. Lui si è affidato a un team di tipografi di Bagheria che stampano foto d’autore da tutta Italia e fanno la quadricromia in quattro passaggi usando inchiostri a fiumi e la tatami, la famosa carta giapponese».
Jannuzzo è fotografo tradizionale…
«Sì, sempre e solo su pellicola. Non voglio togliere nulla al digitale, per carità, né offendere nessuno ma quel risultato mi sembra un po’ di plastica. E poi mi piace giocare coi diaframmi, i tempi di posa, la profondità di campo… Sembra che gli esiti siano buoni. Ho avuto l’approvazione di due maestri che, solo a pensarci, mi vengono i brividi: Gianni Berengo Gardin e Ferdinando Scianna. Per un appassionato come me, è toccare il cielo con un dito».