Sanremo. Balistreri, direttore di scena da 40 anni del Festival: «Dalla Goggi terrorizzata ai capricci dei Dire Straits»

Pippo Balistreri è dal 1981 a capo del "dietro le quinte" del Festival

Pippo Balstreri, direttore di scena del Festival di Sanremo dal 1981, con Amadeus
Pippo Balstreri, direttore di scena del Festival di Sanremo dal 1981, con Amadeus
di Totò Rizzo
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Mercoledì 26 Gennaio 2022, 07:08 - Ultimo aggiornamento: 27 Gennaio, 11:40

Ha 70 anni, Pippo Balistreri, e 40 Sanremo sulle spalle. Direttore di palcoscenico del Festival della Canzone Italiana dal 1981, il Signor Salvaguai, quello che mette una pezza all’imprevisto, che dà una spinta al cantante che recalcitra dietro le quinte o che trasforma l’Ariston, nei pochi minuti di pubblicità tv, da una chiesa di Harlem con coro gospel in un musical-hall con corpo di ballo piume e lustrini, o in una piccola Woodstock rivierasca ad uso di rock band straniera o nostrana. Il capitano di una ciurma di 20 persone, tra loro collegate con auricolari, perché la parte scenica sia in armonico sincrono con quella tecnica, musicale e televisiva, perché in quaranta secondi di presentazione tutto sia pronto per l’esibizione successiva, perché lo show stia il più possibile nei tempi della scaletta, anche a dispetto degli sforamenti dei maestri di cerimonie (leggi conduttori). «E menomale che oggi c’è la tecnologia che ci aiuta», sospira Balistreri in una pausa delle prove che tengono l’esercito Rai asserragliato in teatro dalle 10 alle 21 mentre nei cinque giorni delle dirette dalle 14 a notte fatta.

 

Balistreri, una vita a fare da “vigilie urbano” tra quinte e palcoscenico del festival.

«Una traffico pazzesco anche se dall’anno scorso, con le restrizioni per il Covid, è più semplice. Il cantante può essere assistito da un solo accompagnatore fino alla “red room”, anticamera delle quinte, poi da 5-6 anni al piano sottostante il palcoscenico c’è una “green room” che fa da ulteriore filtro. Ma a pieno regime, l’Ariston, che pure è un teatrone, è sempre stato una bolgia: pochi camerini, corridoi stretti, piccoli spazi comuni. E un via vai di cantanti, direttori d’orchestra, discografici, ospiti…».

E un crocevia di ansia, stress, tensione… I più emozionati?

«Tutti, questo palcoscenico fa paura ai professionisti navigati e alle nuove leve.

Certo, gente come Morandi, Zanicchi, Ranieri sa dissimulare bene, i ragazzi sono più “scoperti” soprattutto se vivono la novità di cantare con una grande orchestra. Ne ho visti più di uno con gli occhi lucidi al termine delle prove. Qualcuno s’è lasciato scappare “ma è bellissimo!...”».

Molti giovanotti si aiutano con l’auto-tune.

«Così l’esibizione live è più fedele alla versione discografica del brano, se anche lì se ne sono serviti. Poi per qualcuno è un mezzo per correggere l’intonazione. Certo, un cantante tradizionale è difficile che utilizzi l’auto-tune. L’anno scorso per esempio Orietta Berti ha dato lezione di intonazione a tutti, senza… effetti speciali. Amedeo Minghi, l’ultima volta che venne in gara, rifiutò gli in-ear monitor, le cuffiette che i cantanti mettono alla orecchie per ascoltare meglio l’orchestra. Gli dovemmo sistemare una serie di casse acustiche in proscenio».

Di aneddoti ne avrà da raccontare, dopo 40 anni di Festival.

«Al mio primo Sanremo, nell’81, Loretta Goggi era terrorizzata. Edoardo De Crescenzo aveva cantato “Ancora” e l’Ariston era esploso in un applauso che sembrava non finire più. Lei veniva subito dopo con “Maledetta primavera”. Il panico la paralizzò. Quando Claudio Cecchetto la presentò rimase ferma dietro le quinte. Dovetti spingerla io in palcoscenico e, come per incanto, il panico svanì».

Imprevisti difficili da gestire?

«L’incursione di Cavallo Pazzo in palcoscenico nel 1992, con Baudo. La Questura ci aveva dato una sua foto nel caso si fosse intrufolato dall’ingresso artisti. Ma lui aggirò l’ostacolo. Si procurò un biglietto di terza fila, in platea e, salendo su una delle casse dei monitor, sotto la ribalta, balzò in scena. Bloccarlo mi costò un pugno».

Qualche altro fuori programma?

«Pino Pagano, il disoccupato che nel ’95 minacciò di suicidarsi dalla galleria dell’Ariston dopo aver oltrepassato la balaustra. Quando Baudo riuscì a convincerlo a desistere, lo portammo in un ufficio del teatro. Pippo ci chiese: “C’è qualcuno che si trova qualcosa in tasca?”. Io avevo 500 mila lire e gliele diedi e lui le consegnò a Pagano. Ecco, quei soldi non li ho più rivisti. Ne rido ancora oggi».

Un imprevisto per cui lei ha detto “stavolta non ce la faccio”?

«Quando Celentano, da ospite, chiese, per un suo numero, di cambiare 22 elementi dell’orchestra su una cinquantina. Non 2, ma 22. Trattative convulse a Roma già un mese prima dell’inizio del Festival. Alla fine la Rai gli accorda quella variazione. Proviamo i tempi e decidiamo che il tutto si può fare durante una lunga pausa pubblicitaria. A cambiamento freneticamente già effettuato, un funzionario viene dentro e fa: “Rinviamo Celentano, adesso facciamo un altro cantante in gara”. È stata la volta in cui mi sono detto: è finita, dovremo andare “a nero”. Ho rischiato un infarto».

Star e superstar straniere.

«La grande lezione di Ray Charles. Venne a cantare in gara “Amori” nel 1990 in abbinata con Toto Cutugno. Fu la dimostrazione, durante le prove e lo show, di come i grandi della musica, i veri grandi, sono anche esempi di umiltà. Capricciosi invece i Dire Straits. Ce ne volle per farli uscire in scena, erano anche piuttosto alticci».

Le famose scale.

«Un incubo, per tutti. Ma in particolare per le signore. L’ultima volta Ornella Vanoni si rifiutò. “Fatemi entrare da un ingresso laterale e non se ne parli più”, sentenziò».

Il pubblico dell’Ariston, L’anno scorso il Festival ne ha fatto a meno.

«Non è stato facile. Il pubblico è il termometro del gradimento. Specialmente se una canzone è inedita. E l’applauso è la linfa di ogni artista. Ma il primo giudice è l’orchestra. Già dalle prove di gennaio, a Roma, nell’auditorium di via Asiago, capisci dai professori se un brano ha un vero appeal musicale».

Conduttori: diamo le pagelle.

«Ah no, pagelle non ne do. Da Baudo abbiamo imparato tutti: per competenza, professionalità, ci ha insegnato soprattutto i tempi dello spettacolo. Ma ho lavorato bene anche con con Fazio, Bonolis, Carlo Conti. Morandi e Baglioni hanno portato una ventata d’aria fresca musicalmente parlando. Amadeus poi è un grande, lavoratore infaticabile, una ne pensa e cento ne fa, proprio come suo compare Fiorello».

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