Anastasio, il ritorno: «Non si può sempre vivere da disperati, ma l'apocalisse rimane»

Esce il nuovo album "Mielemedicina": "Amo sempre il rap ma mi piace sperimentare altri generi"

Anastasio (credit Chrstian Kondic)
Anastasio (credit Chrstian Kondic)
di Totò Rizzo
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Mercoledì 23 Febbraio 2022, 07:51 - Ultimo aggiornamento: 18:08

Con “Mielemedicina” (da venerdì per Sony) torna Anastasio, il rapper campano vincitore di “X Factor” nel 2018, transitato per Sanremo, sia come ospite (nel 2019) che in gara (nel 2020 con “Rosso di rabbia”), primo album (“Atto zero”) e primo tour purtroppo frenati dalla pandemia. Ricco di suoni, questo secondo disco, nove tracce per una gimkana tra generi musicali (rap, cantautorato, melodia, un’incursione di Stefano Bollani e una di Boosta dei Subsonica).

Soddisfatto di “Mielemedicina”?

«Molto contento, rappresenta la mia nuova fase artistica, la mia crescita».

Forse tenuta a freno dall’etichetta rapper?

«Il rap è sempre il genere prediletto, stavolta mi sentivo pronto a spaziare in altri».

Qualcuno dirà: Anastasio ha virato verso il pop.

«Non sarebbe mica una colpa. Potrei rimproverarmi se smettessi d’essere me stesso. Su altri dieci dischi come questo metterei la firma».

“Assurdo”, “Magari”, “E invece”: c’è un’aria ottimista, propositiva in questi brani. Dov’è finita l’apocalisse evocata dall’Anastasio degli esordi?

«Non si può vivere da eterni disperati, bisogna anche trovare una ragione per alzarsi al mattino e una per andare a letto sereni la sera. Ma l’apocalisse, quella c’è sempre».

Infatti si torna a uno sguardo inquietante sulla realtà in “Babele”: bla-bla-bla ma non ci capiamo.

«Comunicare è sempre più difficile, come se parlassimo lingue intraducibili. La parola è una formula magica: se la svuoti da quella, è uno strumento imperfetto».

In “Simbolismo” c’è un chiaro riferimento a Cristo.

«Quella delle religioni è invece una parola ancora potente.

Penso alla Bibbia. Mi piace giocare coi simboli del divino. E anche se non sono praticante, ho una mia spiritualità».

Ne «L’impero che muore» la riflessione è sul potere.

«Un potere svuotato ormai, senza regno, re, esercito. La folla dà l’assalto al castello ma non trova più nessuno. La parabola di questo Paese, con una politica senza più volto, nome, progetto. Una mutazione che mi fa ribrezzo».

Ad ascoltare “Dea dai due volti” l’amore è beatitudine e dannazione. Beato o dannato, per adesso?

«Mi sono ispirato a Jeanne Duvall, la musa di Baudelaire, divinità e demone. Io? Sempre dannato. Magari arrivasse la beatitudine, ma bisogna lavorarci».

Tornerebbe a Sanremo in gara?

«Se avessi un buon pezzo, perché no?».

Consiglierebbe a un giovane agli esordi di tentare la strada del talent come ha fatto lei con “X Factor”?

«Sì. È lì che mi sono fatto le ossa come performer, che ho imparato ad affrontare non solo il palco ma anche l’obiettivo della telecamera».

Eppure lei è l’ultimo ad avere avuto successo tra quelli che hanno vinto in questi ultimi anni. Forse c’è qualcosa da cambiare nella formula?

«Probabilmente i talent hanno perso un po’ di vista il loro obiettivo, sono diventati macchine di promozione».

Per tutto aprile sarà in tour: partirà il 6 dall'Estragon di Bologna, poi a Firenze, Milano, Torino, Padova, Trento, Napoli e Roma (29 e 30 allo Spazio Rossellini). Contento di tornare ai live?

«Non vedo l’ora. Ho bisogno di recuperare il contatto con la gente, di sentire il fiato delle persone sotto il palco. Questi due anni di silenzio sono stati davvero brutti».

Il rapporto coi fans?

«Semplice, naturale: perché non ho schermi, sono solo me stesso».

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