L'intervista a Mimmo Borrelli, da Gomorra a Lecce: «La mia Napoli, creativa e distruttiva»

L'intervista a Mimmo Borrelli, da Gomorra a Lecce: «La mia Napoli, creativa e distruttiva»
di Giorgia SALICANDRO
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Venerdì 4 Marzo 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 07:18

La miseria e la festa, la furia creativa e quella distruttiva, San Gennaro, Maradona, Masaniello e gli altri simboli della “fede”, i vicoli e i cunicoli, la pizza, il contrabbando, la camorra: Napoli è un’Apocalisse sempre pronta a manifestarsi. Così la racconta Mimmo Borrelli nel suo “Napucalisse. Oratorio in lettura”, prodotto da Sciaveca, con le musiche dal vivo di Antonio Della Ragione, che domani alle 20.45 approda ai Cantieri Koreja di Lecce. Divenuto celebre per il grande pubblico come “’o Maestrale” nella quinta stagione di Gomorra la serie, Borrelli torna al palcoscenico, che da oltre un ventennio lo vede protagonista come attore, regista e drammaturgo pluripremiato. In “Napucalisse” si addentra nella città dalla forza magmatica e «contraddittoria», in un monologo che è allo stesso tempo un’invettiva, una denuncia e una dichiarazione d’amore.

Se dovesse riassumere l’essenza della città in tre aggettivi, quali userebbe? 

«Direi bella, brutta e contraddittoria.

Il Vesuvio è “emerso” nel 79 d.C. dal monte somma, Iuppiter Summanus come lo chiamavano gli abitanti di Pompei e di Ercolano, il sommo Giove. Un contadino che intervistai durante la scrittura del testo mi parlò del Vesuvio come della “terrificazione” di Lucifero, lo sprofondamento dal Regno dei Cieli sulla terra. È allo tesso tempo simbolo di distruzione e di creazione: questa ambivalenza per me rappresenta bene il napoletano, così generoso, così creativo, ma anche così terribilmente distruttivo e autodistruttivo».

L’intervista è uno strumento tipico del suo processo di scrittura?

«Da piccolo ascoltavo i viticoltori e i pescatori della mia terra che mi raccontavano le storie di quei luoghi, un’epica devastata, di persone umili, che avevano perso gli arti con la pesca di frodo. Nei miei lavori per il teatro faccio regolarmente interviste, accanto ad altre ricerche, le trascrivo e le catalogo in grandi faldoni».

Torniamo a Napoli. Se dovesse fare da Cicerone a un amico in visita in città, quali luoghi significativi sceglierebbe, per raccontarne l’essenza? 

«Prima di tutto, il litorale da cui si vede il Vesuvio e la città che scorre lungo le sue pendici: banale forse, ma inevitabile. Poi, il reticolato dei quartieri spagnoli, con i colori e degli odori della Napoli popolare, anche se la miseria meravigliosa di Napoli oggi si disperde piuttosto nelle periferie. Infine, il sottosuolo: la chiesa delle Capuzzelle dove c’è il rito delle “anime pezzentelle”. Napoli è una città che si alza verso l’alto e si addentra più in basso del livello del mare, una città stratificata sotto tutti gli aspetti».

Nella sua carriera d’un tratto esplode “Gomorra” la serie, con ‘o Maestrale che le porta una vasta notorietà, ma la identifica anche molto con il personaggio. 

«“Gomorra” è arrivata in piena pandemia, mentre con il teatro ero fermo, grazie a Roberto Saviano (con cui aveva collaborato in “Sanghenapule”, ndr), e a Marco D’Amore che mi conosceva. Mi sono detto: perché no? Certo, è una parte un po’ “invasiva” ma dipende anche da cosa se ne vuole ricavare. Molte persone che mi hanno conosciuto per “Gomorra”, poi sono venute a vedermi a teatro». 

Napoli e “Gomorra”: accanto a premi e celebrazioni, c’è chi ha criticato l’immagine della città rappresentata dalla serie tv. Lei che ne pensa? 

«Intanto, non è l’unica immagine. Noi abbiamo, per esempio, anche “Un posto al sole” che parla di un certo tipo di borghesia napoletana. “Gomorra” è una saga camorristica, che racconta una realtà che dal vivo, ahimè, è più devastante di quella che si vede sullo schermo. E poi non mi risulta che a Chigago qualcuno si sia lamentato della rappresentazione della città come di un posto in cui sono tutti gangster… Anche io, con “Napucalisse”, sono stato accusato di parlare male di Napoli, ma secondo me il teatro, e l’arte in generale, servono per aprire le ferite e interrogarsi».

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