Carrisi, scrittore e regista da record
«Ma “pugliese” fatelo dire a me»

Toni Servillo e Donato Carrisi sul set de "La ragazza nella nebbia"
Toni Servillo e Donato Carrisi sul set de "La ragazza nella nebbia"
di Rosario TORNESELLO
7 Minuti di Lettura
Domenica 5 Novembre 2017, 20:01 - Ultimo aggiornamento: 20:04
Chi è l’assassino, in fondo, se è il male il motore delle storie, di qualsiasi storia, e ognuna opera per imitazione di quella precedente perché la prima regola è copiare, sicché non c’è fine perché non c’è inizio, e tutti sono coinvolti, doppiamente coinvolti anzi, se è l’ambiguità l’essenza intima di ciascuno, e nessuno è mai davvero santo, nessuno mai davvero diavolo, al punto che neanche la giustizia interessa più di tanto, anzi non interessa affatto, perché la gente ha già deciso, prima ancora di trovare un corpo, e un corpo del reato, ha già deciso chi sarà il colpevole a dispetto di qualsiasi sentenza, giacché ognuno in segreto attende solo che la tragedia irrompa sulla scena affinché paura e morte siano esorcizzate e, insieme, allontanate, almeno fino al prossimo giallo, al prossimo mistero. Allora, chi?

Scena prima: il personaggio. Donato Carrisi è uno scrittore. Senza ulteriore aggettivazione. Punto. Ci sono storie all’interno di un solo punto. E qui ci sono. Solo il tempo di arrivarci. Scrittore e ora anche regista, per la precisione. Ha messo la parola fine al romanzo, un thriller, ha spento il computer e acceso la macchina da presa. Esattamente in quest’ordine ma non così velocemente, non così linearmente. È successo col sesto libro, “La ragazza nella nebbia” (Longanesi, 2015). Non era mai accaduto prima. Probabilmente si ripeterà ancora. «La gente dimostra di apprezzare», dice sornione. Ne ha motivo. Il film è nelle sale dal 26 ottobre; Il romanzo è tornato a occupare gli scaffali. Hanno lo stesso titolo, impossibile sbagliarsi. Alcune operazioni non si elidono a vicenda. Si moltiplicano. Andate a chiedere del libro, ora, e capirete. Esaurito in tre librerie su quattro. La piccola Anna Lou; la scomparsa improvvisa; le strategie investigative dell’agente speciale Vogel; il carrozzone mediatico intorno all’evento; i riflettori sulla casa dei genitori... A naso, ricorda qualcosa. Più di qualcosa. Le tragedie hanno sempre punti di contatto. E l’orrore è il primo.

Come va? «Bene», risponde, «periodo molto positivo». E anche travagliato, va aggiunto: i libri, il film, il trasloco in atto (silenzio, è un segreto). Ha casa a Roma, ma è pugliese. Per metà di Martina Franca, città della madre, dove è nato, e per metà di Strudà, undici chilometri da Lecce, frazione di Vernole, dove invece è nato il padre. L’incrocio di località è intreccio di esperienze. L’imprinting di famiglia è fin troppo evidente: mamma Onofria Lella docente di Lettere, papà Antonio professore di Educazione artistica. Ed ecco Donato, l’autore italiano di thriller più conosciuto e venduto. Trasposizione in termini numerici dello scorcio biografico e genetico: i suoi libri sono tradotti in 26 paesi e hanno venduto tre milioni di copie nel mondo, oltre un milione in Italia; il suo film nel weekend d’esordio ha sfiorato il milione di incassi, piazzandosi primo dietro ai soliti americani (yankee go home...). Niente male, per usare un eufemismo. Ha 44 anni, Carrisi: a 19 la prima commedia per il gruppo teatrale fondato con un amico, Vito Lo Re, oggi compositore, direttore d’orchestra ed editore musicale, per di più autore proprio della colonna sonora del film; a 36 il suo primo romanzo, “Il Suggeritore” (Longanesi 2009), subito Premio Bancarella. In mezzo la laurea in Giurisprudenza a Bari (si accettano scommesse sul tema scelto per la tesi; per farla corta: “Il mostro di Foligno”) e poi la svolta professionale con la fiction tv per la sceneggiatura di “Casa famiglia” col produttore Achille Manzotti. Era il 2001.

Scena seconda: il film. «È bello vedere la reazione della gente, sentirsi dire che quasi non sembra una pellicola made in Italy», dice. Il successo è ossigeno per il cinema italiano. Il genere è molto apprezzato. Dicono che ci siano i consigli di Paolo Sorrentino dietro il suo approdo a una regia cinematografica. Sorride. «Paolo è un genio. Fa categoria a sé. L’ultima volta che ci siamo visti abbiamo chiacchierato a lungo...». Cosa ne pensa, lui, a opera ultimata? «Non lo so. Ora è impegnato col suo nuovo film; Toni Servillo, per me l’agente speciale Vogel, interpreta per lui Silvio Berlusconi. Diciamo che è il nostro canale di comunicazione. Ma siccome sono entrambi sul set, i contatti sono limitati. La fase delle riprese assorbe completamente regista e attori. Difficile capirlo fin quando non ti capita in prima persona. Sparisci nel vero senso della parola. Non hai la possibilità di fare null’altro. Neppure pagare le bollette». La metamorfosi è compiuta; il salto c’è stato: meglio dietro la macchina da presa o quella da scrivere? «Sono fermamente convinto che ogni storia decida il suo mezzo espressivo. Ancor di più oggi. Certe volte si impone il romanzo, altre il film. E ora che “La ragazza nella nebbia” è arrivato al cinema posso dire che un’opera come quella si comincia a girarla scrivendo e si continua a scriverla girando. Non c’è separazione, nessun taglio netto. Nessun confine». Da dove parte la storia di Anna Lou? «Tutti i miei libri nascono come sceneggiatura. La loro prima stesura è quella. Poi viene tradotta e diventa romanzo o film. In questo caso dal romanzo sono tornato alla sceneggiatura, per farla crescere: il cinema dà spessore visivo al racconto; la parola scritta, invece, aiuta a sviluppare le connotazioni intimistiche dei personaggi». Lettori-spettatori soddisfatti? «Sì. Hanno giudicato la trasposizione dalla carta allo schermo molto fedele. Non si sono sentiti traditi».

Scena terza: la trama. Anna Lou, una ragazzina. Come Sarah. Come Yara. Per ultimo, come Noemi. Sedici anni anche lei. «Nei fatti di cronaca - spiega Carrisi - ci sono dinamiche che si ripetono. Le adolescenti sono inevitabilmente più esposte». Vogel sa bene come attirare l’attenzione dei media. «Della giustizia non importa niente a nessuno. L’audience cresce nella prima fase delle indagini per poi sfumare; riprende quota solo per un colpo di scena o con la sentenza. La gente vuole il mostro». Prima del ritrovamento di un corpo, serve un colpevole. «Sappiamo come funziona. Prenda Massimo Bossetti, all’ergastolo per l’uccisione di Yara Gambirasio. Una delle prime informazioni fatte trapelare su di lui era che si faceva le lampade abbronzanti, anche all’insaputa della moglie. Una cosa banalissima diventa indizio di colpevolezza. Il mostro si costruisce così. Ma che razza di informazione è?». Ecco, l’informazione: nel film non manca nulla dell’immaginifico circo mediatico, neanche il plastico di Avechot, la località in cui tutto accade. «Circo, non mediatico. Però fatto sulla pelle delle giovani vittime, da santificare sempre per evitare che il caso affievolisca e scada: “se l’è andata a cercare”, insomma. È un modo di leggere la realtà. I romani avevano il Colosseo. La nostra modernità si ferma lì dove i posteri saranno più evoluti di noi. Siamo tutti incastrati in qualche Medioevo». Nella storia non si salva nessuno: ogni personaggio ha la sua ambiguità, il suo doppio. «I buoni assoluti esistono solo in qualche fumetto. Anche i supereroi qualche volta cadono». Cinico o realista? «Ho un sano cinismo, ma anche una grande fiducia nel genere umano». Messaggi? «Ognuno ci trova quello che vuole». Tranne la violenza sbattuta in faccia, effetto splatter. «È un genere che non mi interessa. Come la pornografia: che gusto c’è a vedere due che si accoppiano?». Il resto, al cinema.

Scena quarta: il successo. La voce non tradisce alterigia. Solo sicurezza. Frasi precise. Tagli netti. Il piano sequenza non ammette ribaltamenti di prospettiva. Si segue un flusso logico, coerente. La copiosa raccolta di allori, adesso anche nell’inedita veste di regista, non sembra alterare consolidati equilibri. Insomma, come ci si sente a essere un autore di planetario successo? «Non lo so. Non ne ho idea. Sono rimasto quello che ero quando sono partito da Martina Franca nel 1999. Me lo dicono i miei amici e mi fido. Altrimenti già mi avrebbero sputato in un occhio». Ride. La Puglia come trampolino, come banco di prova. Come passaggio scaramantico dal trullo della Valle d’Itria dove ogni lavoro va immerso, poco o molto, per diventare capolavoro. E già Carrisi è alle prese con l’ultimazione del prossimo thriller. «Sono pugliese ovunque vada - racconta -, con le mie origini a metà tra Martina e Strudà. E ne sono fiero. Ma mi infastidisce quando mi definiscono “scrittore pugliese”. È come se mi toccassero la mamma. Non parlo della mia famiglia in pubblico, e nel privato sono un provinciale. Allo stesso modo custodisco le mie origini geografiche: lo devo dire io. È una cosa di cui mi vanto, ma voglio essere io a parlarne». Si sente ricambiato? Pausa. Ci pensa. Deve essere un modo per contenere le parole, ponderarle. Ma la forma non cambia la sostanza. «Guardi: ho vinto il “Bancarella” e Vendola, allora governatore, non mi ha chiamato. Con l’attuale presidente, Emiliano, qualche contatto e poi nulla più. Il Comune di Martina se n’è uscito con uno scarno comunicato. E delle Università neanche a parlarne». Dispiaciuto? «Un po’ sì, sono sincero. Ma quando vedo gli incassi registrati in Puglia capisco il sentimento che c’è nei miei confronti. I pugliesi sono così: generosi e affettuosi. Sempre. Non si portano un pezzo di terra appresso, di più: trasformano in Puglia qualsiasi parte del mondo». Scrittore. Punto. La storia celata era questa.

Il colpevole, allora. Leggete il libro, vedete il film. Arriverà alla fine, ma non sarà l’unica sorpresa. È il male il vero motore della storia; di tutte le storie. La banalità del male. E il peccato più sciocco del diavolo è la vanità. Lo dice Vogel. Ma potremmo dirlo anche noi, piccoli agenti speciali in questa grande, fantastica, tragica messinscena.


 
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