Martina-Gallipoli, la sfida a colpi di festival. Quando D'Alessio “salvò” la Loren

Martina-Gallipoli, la sfida a colpi di festival. Quando D'Alessio “salvò” la Loren
di Renato MORO
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Domenica 22 Ottobre 2017, 15:18 - Ultimo aggiornamento: 15:19
Prima o poi doveva capitare di mettere insieme il diavolo e l’acquasanta. Il bianco e il nero, la tempesta e la quiete. 
Prima o poi doveva capitare di mettere insieme la scapece e il capocollo. Gallipoli è come il confetto Falqui di Tino Scotti: basta una parola, il nome, e ti ritrovi tutto. Il mare, le spiagge, la folla, il Samsara con le foto dei droni che la fanno apparire come un formicaio, il prosecco davanti al tramonto alla Suina. Il corso Roma con le gelaterie, il centro storico che di sera è tutto una tavolata e il pescatore che giù al porto ti chiama: “Ehi, gio’!”, e tu che - ingenuo - pensi di comprare il pesce fresco appena sbarcato dall’ultimo peschereccio rientrato alla base. E poi gli hotel sul mare, la Baia Verde che assomiglia a una favela, i balconi-monolocale, i selfie sexy e i video hard che i bacchettoni girano di nascosto all’alba per postarli indignati sui social, come se non avessero mai sognato essi stessi di fare sesso in spiaggia almeno una volta nella vita.
Martina Franca, aristocratica, a volte un po’ altezzosa e indubbiamente bella è invece come gli spot di Natale: cominci che li guardi con distacco, poi te ne innamori e finisci per commuoverti. Il centro storico che è un piccolo gioiello, la piazza, i locali, i ristoranti, le masserie e la valle d’Itria che la avvolge e la protegge con gli ulivi che da queste parti per fortuna sono ancora verdi e maestosi.
Due capitali pugliesi del turismo. Ma due modi differenti di intenderlo, viverlo e proporlo: di massa sullo Jonio, dove i numeri sono da capogiro; d’élite dall’altra parte, dove il numero che più si fa notare è quello delle carte di credito nel portafogli degli americani che se potessero smonterebbero i trulli per rimontarli sulla quinta strada. 
“Trulliland”, la chiamò Ettore Mo in un articolo del Corriere di 42 ani fa. Inviato speciale, sempre in giro per il mondo e spesso nelle zone di guerra, Mo era anche un grande appassionato di lirica e quando nacque il Festival della Valle d’Itria scrisse un pezzo sul concerto che la grande Renata Tebaldi tenne a fine agosto di quella che ancora oggi viene ricordata come un’estate memorabile. Titolo su quattro colonne: “La Tebaldi a Trulliland”.
La sfida, il duello o come lo volete chiamare voi, è qui. Due città, due filosofie, due immagini e due festival che hanno fatto conoscere il territorio ben oltre il confine segnato dalle murge. E nessuno s’offenda, perché non è detto che il diavolo e l’acquasanta non possano qualche volta incontrarsi. A Gallipoli il Premio Barocco, nato come festival, negli anni d’oro ha goduto delle dirette in prima serata quando Rai Uno era la rete per eccellenza. A Martina il Festival della Valle d’Itria è uno tra i più importanti eventi culturali in Italia e ha dedicato e dedica la sua esistenza al belcanto.
Era l’estate del 1969 quando il festival gallipolino fece i primi passi, gli stessi giorni in cui - giusto per inquadrare il periodo - in tutti i continenti migliaia di giovani facevano le valigie per raggiungere Woodstock. Fernando Cartenì, il patròn, partì con una gaffe. Lo volle chiamare Festival di Casa Nostra e quando, a Roma, mise piede col suo accento gallipolino negli uffici del Ministero per chiedere sovvenzionamenti, il funzionario che lo ricevette lo gelò: «Ma come, signor Cartenì, di Casa Nostra lo chiama? Sa, è facile equivocare, non mi sembra proprio un nome adatto». Voleva dire che scambiando una vocale, i malpensanti avrebbero potuto leggere Cosa Nostra. Fu così che al festival venne dato il nome di “Terra del Sole”, trasformato poi in Premio Barocco qualche anno dopo. Agli inizi spettacoli, anche itineranti, concerti e gran galà al Costa Brada. Poi l’idea vincente del premio da assegnare a personaggi della cultura, dello spettacolo, della scienza e della politica. 
Tra i primi a ricevere la statuetta ci fu Alberto Sordi. Lui, romano de Roma, non era mai stato in vacanza a Gallipoli e nel Salento in genere. Cartenì andò in auto a Brindisi, all’aeroporto, per riceverlo. «A Ferna’ - disse Albertone sulla tangenziale - io so’ de destra, lo sai, ma visto che annamo a Gallipoli me piacerebbe incontrare Massimo D’Alema». Qualche ora dopo, i due mangiavano pesce a Marechiaro. Era il 1998 e a Gallipoli il leader Massimo era di casa, nel senso che aveva un appartamento in via Kennedy, a venti metri dal lungomare sud. Quattro anni prima, la barca ancorata in porto, fece il famoso pranzo con Rocco Buttiglione, ai Bastioni. Ostriche, pappardelle, frittura mista e un bel patto anti-Berlusconi. 
Nel ‘99 il Premio andò a Vittorio Gassman e l’anno dopo a Luciano Pavarotti. Lucianone arrivò a Gallipoli che il sole splendeva e Fernando Cartenì lo accompagnò al Costa Brada. «Bello», disse affacciandosi dal balcone della sua stanza e guardando le dune, la spiaggia con gli ombrelloni e il mare color Gallipoli. Fu allora che il direttore dell’albergo e lo stesso Cartenì tirarono un sospiro di sollievo. Di notte, cercando di non fare troppo rumore, gli operai avevano letteralmente stravolto il bagno, allargandolo per poter ospitare la stazza del grande tenore.
Era l’estate del 1975, invece, quando a Martina nacque il Festival della Valle d’Itria. Alla presidenza c’era Alessandro Caroli, funzionario Rai e fratello dell’onorevole Giuseppe, stretto collaboratore di Andreotti. Il vero ispiratore, però, fu Paolo Grassi: fondatore con Strehler, nel ’47, del Piccolo teatro di Milano, quell’anno ancora Sovrintendente della Scala e due anni dopo presidente della Rai. Inaugurazione con l’Orfeo ed Euridice, protagonista Viorica Cortez. La mezzosoprano rumena, donna affascinante, proprio in quell’anno aveva ottenuto la cittadinanza francese e la sua presenza a Martina mobilitò i fan. E anche gli ormoni: ancora oggi è sconosciuto il nome dell’ammiratore martinese che pochi minuti dopo lo spettacolo le fece avere in dono un bracciale d’oro tempestato di diamanti. Curiosità: il palco del Festival venne allestito nel cortile del Palazzo Ducale, dove c’era un grande albero cui i martinesi erano affezionati. Fu il primo palco al mondo a inglobare un tronco e qualche anno dopo fu sostituito da uno nuovo, tutto in acciaio, donato dall’Italsider che ancora non era Ilva. L’albero fu abbattuto qualche tempo dopo, per fare spazio, e in città fu polemica. 
Il Valle d’Itria è stato fin dalla nascita un festival di una qualità artistica straordinaria, che ha fatto esordire e conoscere i più grandi nomi del belcanto. «Sul mio palco non voglio vedere limoni spremuti», disse Rodolfo Celletti quando fu chiamato da Paolo Grassi a fare il direttore artistico. E i “limoni spremuti” erano i grandi nomi della lirica, quelli già affermati e perennemente in viaggio in compagnia dei capricci. 
Martina è cresciuta col Valle d’Itria. «Ancora negli anni Ottanta - racconta Anita Preti, che per Quotidiano ha seguito tutte le edizioni - d’estate i bar chiudevano alle 22, c’era poca gente in giro. Il Festival ha portato il turismo d’eccellenza, ha animato le notti al Park Hotel. C’era il bel mondo dello spettacolo: artisti, critici, fan che per assistere alle opere venivano da tutto il mondo». Se ne accorse anche la signora Celletti di quanto Martina fosse poco “turistica”. A spettacolo ancora in corso, chiedeva il suo gelato preferito e qualcuno correva al bar in piazza per comprarlo. «Altrimenti alle dieci chiudono», si giustificava lei.
Ora è tutto cambiato. Le notti del Festival durano molto più a lungo. Forse ci sono meno artisti in giro, pronti a rintanarsi nelle masserie extralusso a spettacolo finito, ma in compenso la movida tiene vivo il centro storico fino all’alba e il turismo continua a far registrare numeri in crescita. Turismo colto, che ha contribuito a fare della Valle d’Itria un brand con una connotazione tutta sua. In altre parole un connubio vincente, tanto che qualche settimana fa un martinese che di numeri e ne intende ha suggerito di allargare il programma proponendo appuntamenti durante tutti i 12 mesi dell’anno. «Ci vuole un’idea guida - ha detto Francesco Lenoci, docente alla Cattolica di Milano, in un’intervista a Quotidiano - il Festival può diventare il vero volano dell’economia».
È a Gallipoli che il connubio ha funzionato un po’ meno. Il Premio Barocco, uscito fuori dal palinsesto della Rai, ha attraversato un po’ in sordina le ultime estati. «La politica mi ha abbandonato - lamenta Fernando Cartenì - se solo ci dessero una parte dei soldi che danno alla Notte della Taranta...». Il patròn, però, non molla e già sta lavorando per poter ospitare, l’estate prossima, il maestro Ennio Morricone. Difficile dire se e quanto Gallipoli, a differenza di Martina, sia cresciuta col suo festival. Indubbiamente 17 anni di dirette Rai hanno contribuito a promuovere l’immagine, ma la città è cresciuta anche di suo. E tanto. Un turismo diverso da quello che conoscono in Valle d’Itria, che presenta di tutto: dai saccopelisti che invadono Baia Verde ai ricchi stranieri che affollano gli alberghi sulla litoranea e alle famiglie che su Booking affittano appartamenti e villette. Numeri diversi, ormai da vera capitale del turismo.
Se ne accorse, eccome, la signora Sophia Loren, quando nel 2001 giunse fin qui per ritirare la statuetta del Premio Barocco. Lei, un mito vivente, mai aveva pensato di fare un tuffo nel mare del Salento. «Non immaginavo fosse così bello qui - disse al solito Cartenì quando arrivò a Gallipoli -. Quanta gente ci sarà alla consegna del Premio?». Lui, il patròn, fece il modesto perché gli avevano detto che la grande Sophia tende facilmente ad emozionarsi. «Signora, saremo pochi, non si preoccupi...». Quando arrivò nell’area portuale la diva salì sul palco, si affacciò e vide il pubblico che occupava ogni centimetro quadrato della spianata. Trentamila persone, contarono gli organizzatori. Fu allora che il regista fece segno a Gigi D’Alessio di cantare una canzone in più. La Loren, vinta dall’emozione, era scappata in bagno
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