Il coronavirus, la grande paura delle epidemie che riscrivono la Storia

Il coronavirus, la grande paura delle epidemie che riscrivono la Storia
di Barbara Gallavotti
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Giovedì 30 Gennaio 2020, 13:03

Il coronavirus emerso dal cuore dell'Oriente ci sta offrendo un discutibile privilegio: assistere al nascere e al diffondersi di una epidemia. In forma accelerata però, come se di fronte ai nostri occhi scorressero fotogrammi che i nostri antenati videro svolgersi con lentezza. In pochi giorni siamo passati dalle prime voci sull'esistenza di un nuovo agente infettivo al tentativo di isolare comunità di decine di milioni di persone, alla segnalazione dell'esaurimento delle mascherine da porre a protezione di bocca e naso, a istituzioni compassatissime come il Politecnico di Zurigo che mettono in guardia i dipendenti da viaggi in estremo Oriente. E non siamo neppure lontanamente vicini, e speriamo di non arrivare mai, a una di quelle pandemie capaci di lasciare una cicatrice nella memoria collettiva.

ABITUDINE
Inoltre, il pericolo posto dalle malattie infettive è qualcosa alla quale dovremmo essere abituati: una normale influenza si stima faccia ogni anno tra le 290.000 alle oltre 600.000 vittime. È un numero impressionante che tuttavia preoccupa così poco da indurre molti a non vaccinarsi. Ma l'influenza è considerata una vecchia conoscenza, di cui pensiamo di prevedere lo sviluppo. L'emergere di un morbo sconosciuto invece desta paure profondissime: è da quando la nostra specie ha memoria che si tramanda il ricordo di mali misteriosi, capaci di annientare intere comunità.
In effetti, quando i nostri antenati iniziarono a formare insediamenti numerosi fornirono agli agenti infettivi le condizioni ideali per contagiare molte persone. E la vicinanza con gli animali da allevamento ha peggiorato le cose, visto che come ci ha ricordato il coronavirus, i nostri minuscoli nemici possono essere estremamente abili nel saltare da una specie all'altra.
Il risultato è stato devastante. Le parole con cui lo storico greco Tucidide descrive la pestilenza che colpì Atene nel 430 a.C. lasciano trasparire il medesimo sgomento rimbalzato poi dal resoconto di un morbo all'altro fino ai giorni nostri. Si calcola che il male fece decine di migliaia di vittime ateniesi. E neppure sappiamo esattamente di quale agente infettivo si trattò. Del resto all'epoca scoprire l'identità dell'assassino non era solo tecnicamente impossibile ma in fondo neppure tanto rilevante, visto che qualsiasi cosa fosse la medicina non poteva offrire protezione. E così per molti millenni. Si discute ancora del ruolo che la peste antonina (forse in realtà morbillo) ebbe nel definitivo crollo dell'Impero Romano.
È certo invece che le malattie infettive portate dall'Europa furono fondamentali nel decretare l'annientamento di imperi come quello azteco, capitolato di fronte a un manipolo di occidentali. Con i conquistadores sbarcarono nelle Americhe virus e batteri completamente nuovi per il sistema immunitario dei nativi. Furono quindi ad esempio influenza, vaiolo, morbillo e colera a spianare il terreno di fronte ai soldati con armi da fuoco.

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IL SIMBOLO
Nel senso opposto arrivò però la sifilide e in Europa si contarono cinque milioni di morti in pochi anni. Siamo però già alla fine del 400 e bisogna tornare indietro per incontrare quella che in occidente viene considerata il simbolo di tutte le epidemie: la peste. A causarla, allora come oggi, è un batterio, lo Yersinia pestis. E questa fu anche l'arma di una delle prime guerre batteriologiche della storia. Nel 1347 infatti il capo mongolo che assediava la colonia genovese di Caffa, in Crimea, catapultò all'interno delle mura nemiche i corpi dei suoi soldati morti di quel male che già seminava lutti in estremo oriente. I genovesi fuggirono, portando il contagio in Europa dove tra il 1347 e il 1350 si calcola abbia ucciso un terzo della popolazione.
La malattia si ripresentò in ondate ricorrenti fino al 1720. Poi, smise di far paura. O quasi, perché oggi casi di peste o piccole epidemie si verificano ancora, anche se non dalle nostre parti. È vero che esistono antibiotici efficaci per trattarla, ma in ogni caso la sua pericolosità non è neppure lontanamente paragonabile a quella del passato. E la cosa interessante è che non sappiamo bene come mai. È vero che i microbi cambiano nel tempo. Il vaiolo ad esempio, si sarebbe trasformato in un grande killer solo verso il XVII secolo. Ma nel caso di Yersinia pestis il DNA sembra indicare che il batterio di oggi è ancora estremamente simile a quello del passato. Forse allora siamo cambiati noi, evolvendo una qualche caratteristica che ci consente di fronteggiare meglio il minuscolo avversario. E così dalla poliomielite al morbillo, all'Aids, a Ebola, la nostra specie ha affrontato e affronta un agente infettivo dopo l'altro. Ma uno deve essere ancora citato: la Spagnola, la spaventosa influenza che tra che il 1918 e il 1919 si diffuse in tutto il mondo, provocando tra i 50 e i 100 milioni di morti. È a questa epidemia che tutti pensano quando si profila un nuovo nemico come il coronavirus.
DISTINGUO
Eppure, certe differenze sono ben evidenti. In primo luogo, la Spagnola fu particolarmente mortale per i giovani adulti, mentre il coronavirus al momento è più nefasto per le persone anziane o debilitate. Ma la differenza fondamentale sta nella nostra capacità di reazione. Sono bastati giorni a tracciare l'identikit genetico del coronavirus, mentre il virus della Spagnola è stato identificato solo in epoca moderna. E se oggi un contagio può trasmettersi molto più rapidamente, favorito da megalopoli e viaggiatori, nei laboratori di tutto il mondo si sta già individuando la chiave per un possibile vaccino. Con gli agenti infettivi insomma, non si può mai abbassare la guardia. Ma a differenza di quanto avvenuto per migliaia di anni, oggi possiamo combattere e lo stiamo facendo.

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