Toni Servillo: «Io e Dustin Hoffman nel Labirinto di Carrisi. Sono un detective malato e romantico»

Toni Servillo
Toni Servillo
di Michela Greco
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Martedì 29 Ottobre 2019, 07:20 - Ultimo aggiornamento: 09:17

Un detective stanco, disilluso, sulle cui spalle grava il peso di una vita senza grandi ambizioni passata a recuperare crediti, tranne un unico caso di rapimento che gli era stato affidato 15 anni prima ed era rimasto insoluto. Ora che il suo tempo sulla terra è scaduto per una malattia in fase terminale, Genko ha la possibilità di colmare quel vuoto provando a catturare il misterioso rapitore. Dopo La ragazza nella nebbia, Toni Servillo torna nell’universo thriller di Donato Carrisi in L’uomo del labirinto, al cinema da domani, in cui la sfida non è solo contro il tempo, ma anche contro un rivale d’eccezione: Dustin Hoffman nei panni del dottor Green, un profiler che prova a risolvere lo stesso caso, ma indagando nella mente della vittima.
Cosa l’ha convinta ad accettare il ruolo?
«Ho trovato molto affascinanti i vari livelli di labirinto: tutto si svolge in una città immaginaria, non collocabile nel tempo e nello spazio, in preda a un caldo biblico che costringe a faticare molto. Non ero convinto di tornare a interpretare un detective dopo averlo già fatto nel primo film di Carrisi, ma lì ero un poliziotto ufficiale, qui invece sono un detective chandleriano che romanticamente ritiene di poter riscattare un’esistenza di cui non è soddisfatto ripescando un caso che aveva toppato».
Il ruolo ha richiesto anche una trasformazione fisica...
«Dovevo interpretare un malato terminale, perciò ho dovuto perdere 7-8 chili, ma in questo film ho fatto anche un lavoro sulla qualità della voce: quando si è malati la prima cosa che viene a mancare è il soffio di vita nella timbrica vocale. C’è stato anche un lavoro sulla postura: man mano che il mio personaggio si avvicina alla morte, si ingobbisce sempre di più».
Come è stato recitare con Dustin Hoffman?
«È stato un privilegio, un regalo. Non l’ho mai chiamato Dustin, ma solo Mr Hoffman: volevo mantenere una giusta distanza nei confronti di un signore che ha vent’anni più di me e ha fatto la storia del cinema».
E fuori dal set?
«Abbiamo ripercorso insieme le nostre vicende teatrali e gli ho raccontato di quando, da ragazzo, a New York l’ho visto a teatro in Morte di un commesso viaggiatore, quando lui con generosità presentava al pubblico un giovane attore allora emergente. Era John Malkovich. Lui ha visto La grande bellezza e conosce il cinema di Sorrentino e attraverso quello il mio lavoro».
Carrisi ha citato alcuni thriller degli anni ‘90 come suoi riferimenti, tra cui “Il silenzio degli innocenti” e “Seven”. Lei che rapporto ha col thriller?
«Non ne sono un grande appassionato, quindi mi sono messo al servizio, con piacere e divertimento, di un mondo che per me è abbastanza estraneo. Come Genko sono entrato nel mondo di Carrisi, un costruttore di trame dall’intarsio notevole che producono gioia negli spettatori».
“L’uomo del labirinto” è tutto girato a Cinecittà. Che esperienza è stata?
«Come per Hoffman, anche per me si sono aperte le porte dei ricordi e delle emozioni. È stato il luogo ideale per trovare la concentrazione, anche perché avevamo il set accanto al camerino».
 

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