Favino è Craxi, c'è il dramma del leader ma non la parabola del Paese

Favino è Craxi, c'è il dramma del leader ma non la parabola del Paese
di Mario Ajello
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Giovedì 9 Gennaio 2020, 06:51 - Ultimo aggiornamento: 11 Gennaio, 21:05

Non riabilita Craxi ma neanche lo distrugge ulteriormente. E in questo né-né forse sta la debolezza del film di Amelio. Più gonfio di pietas che di storia. Dotato di una forte scena iniziale e gravato da un finale poco azzeccato. Quarantacinquesimo congresso del Psi, all'ex Ansaldo, Milano, 1989. Bettino rieletto segretario con suffragio bulgaro e apoteosi. Si avvicina al gigante socialista un amico e compagno - nel film si chiama Vincenzo - e gli dice disperato: «Bettino, se il partito continua così c'è il rischio che non ti sopravviva. Sei circondato da profittatori». Craxi lo gela: «Non fare l'anima bella, non crederti l'angelo salvatore». L'uomo totus politicus fino al cinismo e al disprezzo delle regole è il nocciolo della questione Craxi in «Hammamet». C'è il leone malato e finito che non arretra di un millimetro dalla convinzione che «il denaro per la politica è come le armi per la guerra». E ancora, tra furori e abbattimenti nell'esilio o nella latitanza: «Un politico deve vedere le cose dall'alto, i peccati veniali non importano, perché c'è un fine ultimo».

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RODOMONTE
Rodomontico e sconfitto, gigantesco e fragile: questo il Bettino triste solitario y final. E a proposito di finale: quell'ultima scena che vorrebbe essere felliniana, con un cabaret in cui si mette alla berlina Bettino come «leader-lader», mascalzone sbertucciato tra un canto e un balletto dalla furia demagogica, sembra un'intrusione cinematograficamente indebita. Così come appare poco riuscito il personaggio da fiction del giovane che vuole uccidere Craxi nella sua villa tunisina ma ne resta affascinato e non lo fa. In «N», il film di Paolo Virzì su Napoleone esiliato all'isola d'Elba, l'attrazione-repulsione verso l'imperatore da parte del giovane mancato assassino - l'ottimo Elio Germano - ha una forza che qui manca. Qui ci sono la figlia, Stefania nella realtà, che assiste il padre alla fine della sua parabola e il figlio, Bobo, che cerca politicamente di organizzare trattando con il governo che a sua volta tratta con i magistrati («Il piede malato di Craxi? Solo un foruncolo», diceva Di Pietro mentre il capo socialista moriva di diabete) il rientro del genitore in Italia, per essere curato meglio. Ed ecco Bobo che porta a Bettino in ospedale a Tunisi una lettera firmata da Amato, allora ministro del governo D'Alema, in cui il «traditore» Giuliano promette di interessarsi al caso e Craxi reagisce con rabbia: «Non solo ha scritto tardi ma non ha scritto niente. E' il peggiore». Appallottola la missiva e la lancia nel cestino.

LA MASCHERA
Certo, Favino nella parte di Bettino funziona. Anche troppo. Spesso è identico all'originale, nei toni, negli occhi, negli atteggiamenti, ma l'attore si annulla nel personaggio mentre giganteggia insieme a lui e diventa una maschera (non sempre ben truccata) più di quanto non lo sia già stato nel film su Buscetta. E se già fioccano le polemiche vetero-manipulitiste del tipo - «Hammamet» è una pellicola contro i giudici - è bene liberarsene subito perché non è vero. In quanto manca una riflessione, magari anche di tipo puramente narrativo, sui guasti che la magistratura politicizzata creò allora e avrebbe continuato a provocare in seguito in un Paese caduto vittima del populismo togato e dell'anti-politica (sulla spiaggia di Hammamet arrivano alcuni turisti italiani che gridano al leone morente: «Ladro, vergogna!» e mimano le monetine del Raphael) e precipitato in una transizione politica non ancora conclusa vent'anni dopo la morte di Bettino. Sacramenta contro Di Pietro il Cinghialone abbattuto. Irride alla «rivoluzione giudiziaria»: «Significa che le leggi le fanno le procure? O direttamente il popolo, anzi la gente come si dice oggi?».
Questo racconto del disfacimento malinconico del potere non riesce ad avere, per esempio, il passo del «Presidente», il romanzo di Simenon sullo statista francese costretto per la vergogna a ritirarsi in un angolo sperduto della Normandia covando vendetta. E seppure il regista ha voluto deliberatamente puntare sul lato umano di Craxi, la dimensione storica della tragedia non traspare come potrebbe. E manca il dramma, con tutte le sue attuali ricadute, della sinistra che - tra il radicalismo anti-comunista di Craxi e la virulenta chiusura ideologica anti-socialdemocratica di Berlinguer - portò, parafrasando Marx, alla «comune rovina delle parti in lotta». Qui c'è solo la rovina di uno che non riesce ad assurgere ad archetipo della rovina italiana.

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