Da Nanni Moretti a Virzì: il cinema italiano non bullizza la periferia, la rende cult

Da Nanni Moretti a Virzì: il cinema italiano non bullizza la periferia, la rende cult
Da Nanni Moretti a Virzì: il cinema italiano non bullizza la periferia, la rende cult
di Boris Sollazzo
3 Minuti di Lettura
Venerdì 30 Luglio 2021, 10:13 - Ultimo aggiornamento: 10:14

Ritorno a Coccia di Morto. Riccardo Milani può permettersi il sottotitolo ironico del sequel di uno dei suoi successi, perché con il primo capitolo quasi tutto ambientato a Bastogi ha dimostrato che la periferia (romana) non si bullizza, ma si ama. Meglio prendere in giro Capalbio con un’iconica Franca Leosini.

Leggi anche > Un gatto in tangenziale 2, parla Montino il sindaco di Coccia di Morto: «A Cortellesi e Albanese dico: facciamo qui l'anteprima del film»

Lo “Spinaceto pensavo peggio” di Nanni Moretti in quel Tuttocittà cinematografico che è Caro Diario è ormai mitico, così come la Ostia di Amore Tossico – Caligari si vide contestato da tutti i commercianti di zona – ma anche quella, di una singola cabina, di Casotto di Citti, in cui un’umanità poco edificante si alterna in un paio di metri quadrati scarsi (Jodie Foster compresa).

Il mare di Roma è probabilmente il luogo più maltrattato dal cinema e dagli intellettuali (non dimentichiamo che i cinematografari progressisti colonizzarono Fregene con le loro seconde case): Luciano De Crescenzo diceva che le belle andavano a Fregene e le bruttine a Ostia, negata poi a Mitterand che in una visita di stato voleva vedere l’Idroscalo maltrattato dalle parole di Moravia, semplicemente perché il Maestro aveva ragione, allora era una discarica.

Ettore Scola in Brutti, sporchi e cattivi dipinge Monte Ciocci impietosamente – meravigliosa citazione quella dei ragazzi del Piccolo America che quest’estate hanno organizzato una delle loro tre arene proprio lì – e non è raro che l’occhio ironico e tragico, e non di rado entrambi, mettano i riflettori su angoli sconosciuti del paese.

Celebre è il film di Joris Ivens L’Italia non è un paese povero, commissionato da Enrico Mattei per glorificare l’Italia e quel gas e petrolio che ne sarebbero stati la linfa e che diventa un ritratto doloroso e potente di quanto lo Stivale nel 1960 fosse lontano, per la maggior parte, dai fasti del boom economico (46 anni dopo ci penserà Daniele Vicari a farne un reboot, innestando un film nuovo su quello con Il mio paese).

Ovosodo di Paolo Virzì prende addirittura il nome da un quartiere della sua Livorno, dipinta con il tipico amore feroce di quelle parti, perché il cinema qualsiasi sia il genere che pratica ama mostrare i luoghi nella loro nuda verità e anche nella loro malinconica o comica poesia.

Proprio Milani con Il posto dell’anima, il suo capolavoro, girato in Abruzzo, da Vasto a Pescasseroli, ha visto addirittura una storica entrata di un film nella toponomastica di una città, Cisterna, profondamente toccata dalla vicenda dell’ex Goodyear a cui il regista si ispirò per quell’opera. Ora lì esiste un Largo Il posto dell’anima, in memoria dei caduti sul lavoro. Così come Virginia Raggi a Paolo Villaggio ha dedicato il mitico tratto fantozziano della tangenziale romana.

Lì per fortuna il ragionier Ugo cadeva sì, ma solo dal suo balcone.

© RIPRODUZIONE RISERVATA