Borotalco compie 40 anni. Carlo Verdone a Leggo: «Sono esploso con quel film. Eredi? Nessuno come me»

"La mia favola sui colorati anni '80. Scelsi la Giorgi, bella e frizzante"

Carlo Verdone ed Eleonora Giorgi in una scena
Carlo Verdone ed Eleonora Giorgi in una scena
di Claudio Fabretti
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Martedì 18 Gennaio 2022, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 19 Gennaio, 15:26

«Borotalco è stato tutto per me. Dovevo dimostrare di essere un attore e un regista, rinunciando ai miei personaggi. Senza più parrucche, gestualità e voci strane. C’era bisogno di una storia forte e l’ho trovata: la mia carriera è partita da lì». Quarant’anni dopo, Carlo Verdone conserva un legame di affettuosa riconoscenza verso il suo film più amato: «È bello che siano ricordate ancora certe scene, certe battute. Dà il senso di aver fatto centro, di aver regalato un po’ di buon umore al pubblico per tutti questi anni».

Come nacque l’idea del film?

«Era l’idea di una favola leggera, aggraziata, che rappresentasse lo spirito di quegli anni 80 così colorati e ottimisti, pieni di bella musica come quella di Lucio Dalla. L’altro tema era il ribaltamento dei ruoli uomo-donna».

In che senso?

«Nel film la figura femminile è più dinamica, più forte, più capace. Il femminismo aveva terremotato tutto: non esisteva più il vecchio maschio alfa, l’uomo che rimorchiava stile Tognazzi, Sordi, Manfredi o Gassman. Ne restava un simulacro come Manuel Fantoni: un uomo solo, che passava i pomeriggi a raccontare balle a un venditore dei Colossi della Musica, uno che non aveva niente da fare dalla mattina alla sera! Un personaggio un po’ miserabile, ma molto divertente. E poi c’ero io, con le mie imbranataggini».

È vero che il ruolo di Fantoni doveva essere assegnato proprio a Vittorio Gassman?

«Sì, era un’idea dell’altro sceneggiatore, Enrico Oldoini. Gassman, con la sua prosopopea un po’ trombonesca, gli pareva perfetto. Ma io avevo fatto film con personaggi semisconosciuti, con bravi caratteristi, temevo che Gassman fosse una personalità troppo ingombrante. Così ho scelto Angelo Infanti, un attore bravo, generoso: sono contento che sia rimasto nel cuore del pubblico con quel personaggio».

Cosa la colpì in Eleonora Giorgi?

«Lei era una bellissima ragazza, aveva fatto diverse commedie, alcune buone, altre meno. Io cercavo un personaggio che fosse luminoso, frizzante, pieno di energia. E mi convinsi che fosse la persona giusta. Poi la conobbi meglio, anche grazie alla partecipazione del marito, Angelo Rizzoli, alla produzione, e mi resi conto che era proprio la ragazza della porta accanto, con l’entusiasmo giusto che ci serviva».

E poi c’è Mario Brega. È vero che il racconto del pestaggio ai due malcapitati che avevano fatto apprezzamenti alla figlia era in realtà la storia di un suo scontro con Gordon Scott sul set di “Buffalo Bill”?

«Sì, perché sul set, Scott i cazzotti glieli dava davvero. Allora un giorno Brega si stufò e gli disse: “Ma che stai a fa’ sul serio? Allora vediamo chi vince”. Si misero a fare a pugni e lui gli urlò: “Manco il sangue m’hai fatto usci’, a’ cornuto, in guardia!”. E poi gliene piazzò due. E a noi raccontava: “Me cadde a braccia larghe indietro come Gesù Cristo, je urlai: arzete cornuto”. La raccontava 50 volte al giorno, voleva farci capire che era uno con cui non si poteva scherzare».

Il concetto di “sta mano po' esse fero e po' esse piuma” di “Bianco rosso e Verdone”.

«Esatto. Quella battuta mi venne in autostrada. Brega non la voleva dire, forse non l’aveva capita, ma Sergio Leone ne era entusiasta: “Fagliela di’”, insisteva».

In “Borotocalco” fece esordire una giovane Moana Pozzi. È vero che la conobbe da Troisi?

«Già, era l’ennesimo “acchiappo” di Massimo. La vidi una sera da lui, era avvenente, attillata, bona! Poi la rividi qualche giorno dopo nell’appartamento a Trastevere che volevamo usare come casa della Giorgi: indossava solo un paio di slip.

Le chiesi: “Hai problemi con le scene di nudo?”. “Ma per carità, nessuno”, mi rispose».

Con Lucio Dalla, invece, rischiò di finire male…

«Gli giravano le scatole perché sui manifesti del film il suo nome era grande quanto il titolo, il doppio del mio. Così andò alla prima a Bologna con spirito battagliero, poi iniziò a vedere la gente ridere, a capire che il film era un omaggio a lui e alla fine vi fu un grande applauso e tutti lo andarono a salutare e fargli i complimenti. La mattina dopo mi chiamò e mi disse: “Ti perdono, hai fatto un grande film”. Poi siamo diventati amici».

Perché un’intera generazione si è identificata nel film?

«Perché coglieva lo spirito di quel periodo, il suo candore, con personaggi buoni, ingenui. Venivamo da un periodo di forti tensioni, di scontri ogni sabato, di attentati terroristici, culminati nell’assassinio di Aldo Moro. C’era voglia di tornare a sorridere».

E c’era anche una nuova straordinaria generazione di comici: lei, Troisi, Nuti, ma anche Benigni, per certi versi Moretti…

«Sì, era una generazione che voleva dare una sferzata a una commedia italiana che stava arrancando. Facemmo tutti grandi risultati al botteghino. Così finalmente si chiusero le sale a luci rosse e si tornarono ad aprire le vere grandi sale con i numeri di una volta».

Triste ricordarlo oggi, in tempo di Covid. C’è futuro per le sale?

«Spero di sì, ma non si può ignorare che sta cambiando tutto. Le piattaforme streaming sono una realtà».

C’era anche molta libertà per i comici. Oggi come vive con i dogmi del politically correct?

«Certe battute di “Borotalco” non si potrebbero più usare. Oggi dobbiamo far ridere in un altro modo. Su alcuni principi sono d’accordo, su altre cose si esagera. C’è un femminismo americano un po’ pesante e a volte soprattutto ipocrita: è la cosa che mi dà più fastidio».

È scomparsa anche la Roma di “Borotalco” e dei suoi primi film?

«Perché non ci sono più i romani, quelli che parlavano da finestra a finestra».

Quelli che le dicevano “bravo, così invece de uno che ne cascheno dieci” in “Un sacco bello”.

«Sì, quelli. L’anima vera di Roma, quella del Belli, è stata dispersa nei casermoni delle periferie proprio a partire dagli anni 80. Oggi è una città più cinica, incattivita, con tanta invidia sociale, basta leggere i social newtwork».

Non i suoi, però: sembrano delle oasi di buoni sentimenti…

«Non mi interessano i like, scrivo quello che penso, racconto le mie storie con sincerità. Le persone alla fine mi apprezzano per questo».

E ora conoscono anche un po’ meglio “La vita da Carlo”. A proposito: se l’aspettava il successo della serie?

«No, ero molto impaurito! Mi preoccupava la mole di lavoro e non mi ero mai confrontato con questa formula. Ma è andata bene, mi sono raccontato con coraggio».

Il prossimo film?

«Sono pronto a scrivere, aspetto input da De Laurentiis e Prime Video».

C’è un film o un regista in cui per un attimo ha rivisto il Verdone di “Borotalco”?

«No, nessuno. Quello è uno stile mio, troppo verdoniano».

Niente eredi, allora?

«Per ora no, anche se ci sono tanti attori bravi. Però per carità, speriamo che arrivino dei giovani a prendere il posto nostro, altrimenti qua il cinema muore!».

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