L'analisi/La crisi da pandemia e la voglia di riscatto: pronti a cogliere le opportunità

L'analisi/La crisi da pandemia e la voglia di riscatto: pronti a cogliere le opportunità
di Francesco G.GIOFFREDI
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Mercoledì 20 Maggio 2020, 12:54 - Ultimo aggiornamento: 13:35
Può un "cigno nero" come una pandemia globale essere motore d'opportunità, scintilla per riorganizzare i modelli di creazione del valore, occasione per presidiare produttività e posti di lavoro? Può un sistema economico riemergere in fretta dalla tempesta perfetta del coronavirus, cogliendo il momento per rilanciarsi e ripensarsi? L'ipotesi è un azzardo, quasi un paradosso o una provocazione, i tempi sono ancora acerbi per accennare risposte, ma lo spunto è senz'altro opportuno. Per tutti: per l'Italia, e per questo pezzo di Sud così emblematico quanto a eccellenze, qualità inespresse, fragilità strutturali e contraddizioni. La pandemia ha infiacchito le imprese, le ha prosciugate spesso delle (poche) certezze, la crisi ha corroso le residue rendite di fiducia e sta riscrivendo paradigmi e regole, forse fino nelle fondamenta sistemiche e non sempre declinando al meglio. Ma la Puglia e il Salento hanno il dovere e probabilmente anche gli strumenti, o quantomeno i potenziali per andare oltre tutto. Oltre il ciclone che s'è abbattuto sull'intera economia. Oltre la spirale negativa, esponenziale e di lungo termine. Oltre la logica corriva dell'assistenzialismo, che è cosa ben diversa delle necessarie politiche pubbliche di sostegno e investimento.

Insomma: la crisi può essere il luogo delle domande, lo spazio per interrogarsi sul cosa, sul come e sulle modalità di messa in sicurezza di un sistema economico pugliese e salentino imperfetto, lacunoso e però dinamico, in cammino, spesso innervato da realtà vogliose di affrancarsi dai vecchi schemi e dalle solite rendite di posizione. Ecco: l'imperativo è ripartire da quanto di buono già c'è. Non fosse altro che per preservarlo e non dissiparlo. D'altro canto, è proprio questa l'altra faccia del cigno nero, cioè «un evento raro, dall'impatto enorme e dalla prevedibilità retrospettiva» come spiegato già nel 2007 da Nassim N. Taleb. Di cigni neri è piena la storia, e lo sarà sempre. Lo scarto sta però tutto nella reattività e nella capacità di non essere «ciechi alle grandi deviazioni». Proprio il filosofo e matematico libanese-americano, nelle scorse settimane, ha così twittato a proposito di lockdown e stop sistemico: «L'Italia non sta rischiando la sua economia per sconfiggere il virus. Sta abbassando i rischi per l'economia combattendo il virus».

La fase 2, adesso, è proprio questo: rimettersi in marcia dopo aver minimizzato (si spera) i rischi. Soprattutto qui al Sud. Capitalizzando il più possibile, nelle tre province jonico-salentine, il manifatturiero a valore aggiunto, le filiere della meccanica e dell'automotive, l'edilizia, il ruolo cruciale e però modernizzato dell'industria pesante, il turismo obbligato per certi versi a maturare e a inaugurare una personalissima fase 2, l'enogastronomia e l'agricoltura sempre più traccia distintiva, la cultura e gli spettacoli che impreziosiscono e diversificano. La cassetta degli attrezzi pubblici sarà fondamentale: il singolo imprenditore non può essere lasciato solo tra i flutti della crisi, i decreti del governo sono una incoraggiante base e saranno benzina essenziale, ma per muovere la macchina della ripresa è richiesto anche altro, per esempio una burocrazia meno ostile, la concentrazione degli investimenti pubblici, la capacità delle imprese di innovare e di consorziarsi in distretti e reti. Al Sud - e perciò in Puglia - più che altrove, e il perché è stato recentemente ricordato dalla Svimez: nelle regioni del Mezzogiorno il tessuto imprenditoriale è più debole, ancora in convalescenza dopo la grande crisi del 2008, e qui i «rischi di default delle imprese di maggiore dimensione vengono valutati significativamente maggiori». La Svimez ha anche misurato l'impatto mensile del coronavirus su valore aggiunto e redditi, il conto è salato ovunque, al Sud ha inciso per 10 miliardi al mese, in Puglia per 1,8. Ecco perché la fase 2 dev'essere un'opportunità per irrobustire e innovare gli asset-traino del territorio.

Molto spesso, d'altro canto, è proprio l'assenza che segnala una presenza, e in pieno lockdown è andata esattamente così: dibattito pubblico e percezione comune hanno toccato con mano la strategicità di molte filiere, tanto di quelle che hanno permesso al Paese di sopravvivere (agroalimentare, biomedicale, alcuni segmenti del manifatturiero); quanto di quelle obtorto collo ferme ai box, e abitualmente procacciatrici di beni e benessere diffuso. È stata insomma una specie di riscoperta di ciò che avevamo sotto il naso, con buona pace di chi idealizza la "decrescita (in)felice", magari proprio in virtù di una malriposta e fuorviante resipiscenza da pandemia. No: la fase 2 e tutti i successivi step non potranno fare a meno delle imprese che sul territorio producono, innovano e contribuiscono ad accrescere il capitale reputazionale della Puglia. Perché se è vero che, in un mondo globalizzato, la rapidità di circolazione delle informazioni converte situazioni di incertezza locale in crisi sistemiche globali (il cigno nero da Wuhan ha dispiegato le ali ovunque, in un attimo), vale anche il contrario: un territorio si vende nella competizione innanzitutto per ciò che fa e dà, amplificato proprio dai legami europei e dalle opportunità globali.

In Puglia, per esempio, da anni è rifiorito e si è imposto il settore della moda e del tessile-calzaturiero, grazie alla abnegazione di qualche imprenditore visionario e al contoterzismo di qualità e per il lusso. Nel 2019 l'export (dati Unioncamere) ha fatto registrare 710 milioni, in flessione rispetto al 2018, ma il dato è però superiore al periodo post-crisi (676 milioni nel 2014). Altro esempio è la meccatronica, anche qui dati e analisi sono di Unioncamere: settore «particolarmente vivace a livello di proiezione internazionale con 3,4 miliardi di export nel 2019» e il dato è ancora provvisorio ma comunque in rialzo del 46% rispetto al 2014.

Sulla bilancia peserà tutto, nella fase 2 (e oltre) in mare aperto. La ripartenza dovrà giocoforza sfruttare un patto trasversale tra attori e capacità di plasmare i fattori di contesto. Il caso Taranto vale più di mille teorie: non solo il tessuto imprenditoriale, non soltanto un attore principale (il polo siderurgico) da modernizzare, ma anche il Cis, cioè il Contratto istituzionale di sviluppo che ha in pancia 1 miliardo di investimenti e che tutto e tutti tiene dentro. Anche i diversi interlocutori pubblici. È una cartolina, è un esempio extra-tarantino: lavorare in prospettiva, rafforzare le relazioni, puntare sulle specializzazioni, innovare. Per non farsi spiazzare, nessuno, da un nuovo cigno nero.
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