Naturalmente, professor Riccardo Valentini: «Il pianeta dipende da noi»

Naturalmente, professor Riccardo Valentini: «Il pianeta dipende da noi»
Naturalmente, professor Riccardo Valentini: «Il pianeta dipende da noi»
di Francesco Malfetano
7 Minuti di Lettura
Mercoledì 11 Dicembre 2019, 00:15

«Con la nostra presenza abbiamo alterato il Pianeta. Per questo serve che ognuno faccia la sua parte, soprattutto ora che basta davvero poco». Riccardo Valentini, insegna ecologia all’università della Tuscia ed è «ottimista sul futuro della Terra perché iniziano a cambiare le nostre abitudini». Da fisico si è occupato soprattutto dello studio dei mutamenti del clima che, nel 2007, gli è valso il Nobel per la Pace assieme agli scienziati del Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) accendendo i riflettori sul tema del secolo e sul silenzio dei grandi responsabili della situazione. Ora però sostiene che «i più giovani» hanno capito l’importanza del problema e chiedono soluzioni «pragmatiche» alla generazione che lo ha creato, ma «politica e istituzioni fanno ancora fatica».
Professore, partiamo dall’inizio. Qual è la situazione attuale del nostro Pianeta?
«Prima di tutto vorrei sottolineare una cosa. Spesso vengono messi sotto accusa dati e misurazioni, sostenendo che non rappresentino situazione. Alcune potrebbero anche non essere precise ma di una cosa siamo certi: l’uomo ha mutato il sistema climatico. I numeri mostrano fatti inconfutabili: la concentrazione di anidride carbonica, ma anche di altri gas, è la più alta in assoluto degli ultimi 800mila anni. Nell’ultimo secolo misuriamo un aumento di 0,87 gradi centigradi rispetto all’era pre-industriale. Considerando solo le terre emerse invece l’aumento tocca +1,5 gradi centigradi. Una soglia addirittura superata nel Mediterraneo. Lo stato attuale quindi è questo, ci troviamo dentro un’alterazione del sistema climatico. Stiamo correndo verso un futuro di ulteriore riscaldamento e se non facciamo nulla ci ritroveremo nei guai».
Un quadro piuttosto drammatico. Cosa possiamo fare? Con quali armi si combatte questa battaglia?
«L’alterazione del sistema è complessa ma dipende soprattutto dalla Co2. L’anidride carbonica, che io definisco uno dei gas più democratici perché è diffusa nel 90% delle attività umane, viene prodotta da trasporti, agricoltura e da qualsiasi altro settore economico in pratica. Si tratta di un problema più articolato rispetto a quello del buco dell’ozono dove c’era un solo gas che intaccava l’atmosfera, è bastato intervenire su questo e la soluzione è stata trovata. In questo caso dobbiamo agire con un portafogli di soluzioni come energie rinnovabili, efficienza energetica e agricoltura sostenibile. Si possono fare tante cose, la vera difficoltà è farlo in maniera integrata e a tutti i livelli».
Cosa intende?
«C’è bisogno che partecipi l’intera struttura sociale: aziende, cittadini, istituzioni e politica. E non è detto neppure che funzioni. Pensiamo a quello più alto, istituzioni e politica, ormai non basta neppure che un singolo Paese faccia del suo meglio - penso all’Europa - se poi altri come gli Stati Uniti non concorrono, è impossibile».
Le sue ricerche, tra le altre cose, hanno mostrato come le politiche di gestione e miglioramento dell’agricoltura e delle foreste possano portare un contributo positivo per mitigare il riscaldamento climatico. Qual è il peso della nostra alimentazione in tutto ciò?
«In pratica il tema è quasi una novità nel panorama della discussione. Ad esempio l’ultimo report Ipcc uscito ad agosto (Rapporto speciale “Land and Climate” ndr), mettiamo insieme tutta la filiera agroindustriale globale a partire dai processi produttivi delle aziende agricole fino ai consumatori e ai rifiuti. Sommando tutte queste componenti abbiamo calcolato che il loro peso è del 37% delle emissioni globali. Una cifra che non potevamo neppure immaginare e che dimostra davvero che ciò che noi mangiamo, le nostre diete, hanno delle conseguenze importanti. Oggi come oggi soprattutto in alcuni Paesi».
Sta parlando della Cina?
«Esattamente. Lì dal dopoguerra le abitudini alimentari sono cambiate in maniera drammatica. Prima erano praticamente vegetariani e mangiavano una grandissima quantità di riso (circa 80kg pro capite all’anno, ora meno di 40) che hanno sostituito con le proteine animali, soprattutto da carni rosse. Le classi più agiate sono state permeate da nuove abitudini che hanno anche portato a una modificazione della struttura corporea. Ora nascono sempre più alti e tendenti al sovrappeso. Ma quello della carne rossa è un problema che riguarda tutta la catena agroalimentare perché c’è bisogno di grosse quantità di mangimi per gli allevamenti. E gli ettari di terra che usiamo per produrli è tantissima, al punto che oggi abbiamo già consumato il 73% di quella disponibile (non coperta dai ghiacci ndr) per sostenere la comunità umana. Ci rimane un 27% ancora da accaparrarci per far fronte a una crescita di 2 miliardi di persone fino al 2050».
Lei ha individuato come altro grande tema critico sulla gestione delle emissioni, nei trasporti. Con la mobilità a che punto siamo?
«È un grande problema perché abbiamo tra le criticità quella dell’accentramento della popolazione negli agglomerati urbani. Nel 2050 l’80% della popolazione vivrà in città e solo 20% in campagna. Questo pone una serie di problematiche. Per ridurre le emissioni di gas serra quindi bisogna intervenire in città e soprattutto sulla mobilità. È un tema tipicamente cittadino quindi, in cui però stiamo finalmente registrando degli aspetti positivi come le grandi aziende che hanno scoperto di poter utilizzare e produrre le auto elettriche, con grossi vantaggi».
In che senso?
«Anche se alimentata con elettricità fossile, l’auto elettrica ha un’efficienza superiore del 50% rispetto a quella classica. Il motore a scoppio consuma molto in termini di energia prodotta per il movimento. Poi ovviamente la sfida è alimentarle con le rinnovabili o con nuove forme di energia come l’idrogeno su cui la Germania sta investendo tantissimo. È green, consuma meno in fase di produzione e soprattutto è stoccabile. Poi sul sistema mobilità stiamo andando nella direzione giusta. Pensiamo alla sharing economy applicata ai trasporti. Io vivo a Roma e non ho macchina. In città uso qualsiasi altro mezzo di locomozione in condivisione, dalle macchine ai motorini e ora la bicicletta a pedalata assistita. Ma questo si inserisce tutto in un tema di cambiare il nostro pensiero».
Siamo pronti a cambiare le nostre abitudini?
«Il punto è che basta davvero poco. Quello che mettiamo nel piatto ad esempio può fare la differenza. In un progetto di ricerca insieme il Fondazione Barilla center for food and nutrition, abbiamo visto che si può fare molto cambiando poco. Non c’è bisogno di diventare tutti vegani o vegetariani. Basta passare da mangiare 5 volte a settimana la carne rossa a 2 volte, già riduce del 30% le emissioni. Questo la dice lunga, perché non significa criminalizzare il piacere di una bistecca ma bilanciarlo con verdure e legumi».
Negli ultimi anni lo spirito green sembra avere nuova forza. C’è una coscienza diversa rispetto al passato? 
«I ragazzi, la nuova generazione, quella di Greta, hanno capito qualcosa che fino a questo momento sfuggiva alle persone. Quello che passa spesso è che sia diventata una moda ma io ho parlato con alcuni di questi ragazzi ed ho riscontrato una conoscenza del tema notevole. Hanno letto, hanno studiato, magari facessero così anche a scuola! Io non credo sia un trend giovanilistico, hanno capito che il tema è la loro vita. Sono loro che raccoglieranno i frutti dissennati della nostra economia fossile, per questo stanno compiendo un atto pragmatico, chiedendo azioni concrete e rapide».
E quali sono? Ad esempio come si diventa un Paese o un Pianeta sostenibile?
«Si può fare tanto e le aziende, spinte dai consumatori, stanno iniziando a farlo. E i cittadini lo stesso, ma c’è bisogno di regole precise che li aiuti. Ad esempio sul riciclo o sulla produzione della propria energia rinnovabile. Per quanto riguarda la politica poi, in Italia abbiamo un grosso problema perché sta indietro rispetto al resto. Fa molto poco. Il punto critico però non è tanto il governo nazionale che segue le politiche europee e cerca di fare le politiche energetiche. Ma gli enti locali, sono loro che devono entrare a casa dei cittadini e che invece fanno troppo poco. Hanno spesso a disposizione fondi che non vengono utilizzati. Sembra che gli enti territoriali non abbiamo compreso l’impatto dei cambiamenti climatici che peraltro possono essere una grande opportunità di rilancio perché possono portare a un miglioramento delle infrastrutture, in base all’impatto ambientale e all’adattamento climatico. Ma bisogna iniziare a farlo perché tra 20 anni sarà troppo tardi».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA