La Puglia e il treno chiamato Recovery

La Puglia e il treno chiamato Recovery
di Francesco G.GIOFFREDI
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Martedì 27 Ottobre 2020, 09:27

Come una guerra. E stavolta la metafora bellica, spesso abusata fino a defraudarla di peso e senso, è come non mai pertinente e stringente. Se non altro perché così decretano i numeri del Fondo monetario internazionale: il crollo del Pil scatenato dalla pandemia, in Europa pari al 7% nel 2020, è stato il peggiore dalla Seconda guerra mondiale. L’Italia resta in tal senso un esempio nitido, e il Covid ha aggiunto altro piombo nelle ali del Sud, già di per sé zavorrato e già alle prese con una crescita troppo timida, a scartamento ridotto: -9,3% nel 2020 per l’Italia, -8,2% al Mezzogiorno, -9% per la Puglia (previsioni Svimez). Ogni guerra tuttavia implica sempre una ricostruzione post-bellica, una rinascita “sistemica”, la crisi come opportunità per cambiare passo e ridisegnare paradigmi e impostare nuove rotte. La Puglia è (stata?) spesso avanguardia e regione-spia in un Mezzogiorno mai omogeneo e spesso “centrifugo”: anche domani, quando si sarà placata la seconda ondata pandemica, può e deve ritagliarsi uno spazio, un ruolo, un’autonomia di visione e possibilmente una capacità motrice tutta propria. Senza rattrappirsi su vecchi modelli, prima di tutto di governo delle risorse pubbliche, tanto interne quanto europee. Soprattutto perché in ballo ora c’è il Piano Marshall europeo - e anche qui ritorna il parallelismo col secondo dopoguerra: il Recovery fund dell’Ue da 750 miliardi (209 per l’Italia) è una mezza rivoluzione, almeno nelle premesse. Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud, fa già di conto: tra Recovery fund e risorse europee “ordinarie” (siamo alle porte del nuovo ciclo di programmazione) «per il Mezzogiorno ci sono 140 miliardi per i prossimi anni».

Sulla ripartizione della fetta italiana dei 209 miliardi intanto s’è già messa in moto la solita quadriglia di rivendicazioni, Nord contro Sud, un ministero contro l’altro, Regioni in pressing sul governo. Insomma: nulla di nuovo. Purtroppo. Resta comunque un tornante cruciale, storico. Ancor più dopo l’ulteriore stretta imposta nelle scorse ore dal governo a una parte di attività commerciali e imprenditoriali: l’abisso della crisi economica così rischia gioco forza di diventare più profondo e vorace. Al di là degli aiuti contingenti e immediati per tamponare l’emorragia di reddito e introiti (che pure sembrano sul piatto), c’è perciò un sforzo immane e collettivo da compiere: proiettarsi con un pizzico di fiducia sul “dopo”, sulla resurrezione post-bellica, sulla strategia sistemica e di lungo periodo.

La Puglia può offrire molto, su questo terreno: i sintomi di vitalità già mostrati da alcuni segmenti del manifatturiero di qualità e la possibilità di affacciarsi su nuovi mercati, il completamento o la realizzazione di vecchie e nuove infrastrutture strategiche, l’identità rivitalizzata di territori martoriati per lustri (Taranto è l’esempio principale), la green economy, il turismo di qualità o di prossimità, persino lo stesso smart working, declinato nell’accezione ottimistica del cosiddetto “South working”, che può aprire spiragli inattesi per periferie dimenticate. Due ricercatori dell’Università di Berkeley hanno dimostrato che a cambiare volto all’Italia 70 anni fa non fu soltanto la ricca dotazione finanziaria del Piano Marshall, quanto perlopiù la condizionalità (oggi si chiama così) imposta per beneficiarne, cioè un’adeguata modernizzazione delle istituzioni economiche del Paese. È lo stesso tema che si impone oggi, tirato in ballo a settembre anche dal capo dello Stato Sergio Mattarella: «La crisi obbliga a fare un ricorso massiccio al debito e non dobbiamo compromettere con scelte errate il futuro delle nuove generazioni», che «guarderanno come sono state amministrate le risorse. In caso di inattività o scarsa azione, si chiederannoperché generazioni chehanno avuto condizioni così propizie non siano riuscite a realizzare infrastrutture essenziali e riforme strutturali».

In Fiera del Levante, a Bari, anche Giuseppe Conte ha ammesso che c’è una trappola da aggirare: «Abbiamo 209 miliardi del Recovery Fund, sono risorse già di per sé senza precedenti, a queste poi aggiungiamo gli ulteriori fondi del Programma europeo React Eu, i fondi strutturali, che abbiamo rimodulato, e fondi di sviluppo e coesione». «Cosamanca allora?», si è chiesto il premier: «Quello che è quasi sempre mancato in questi decenni: saper dare piena attuazione ai progetti, riuscire a esprimere una capacità amministrativa di spesa e di realizzare gli investimenti, le opere annunciate». Ecco: la governance, la visione, la strategia. A Roma come nelle Regioni e sui territori: nessuno si senta escluso. La Puglia ha provato a indirizzare la bussola: la piena attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, pietra angolare del dibattito tra Regioni e vero fulcro della partita legata all’autonomia differenziata; gli investimenti necessari per accorciare il divario infrastrutturale del Sud, (l’alta velocità ferroviaria Napoli– Bari–Lecce–Taranto, l’asse stradale 106 Jonica, la statale 275); e infine l’adeguato sostegno al «modello di sviluppo industriale pugliese». Ne aggiungiamo un’altra: l’infrastruttura digitale, recuperando il gap sulla bandaultralarga. Sono queste le prime basi del cantiere, la spartizione della torta da 209 miliardi tra Regioni è tuttavia ancora prematura. Svimez s’è tuttavia cimentata con una proiezione: tre scenari sull’impiego dei 77miliardi a fondo perduto del Recovery Fund, applicando diversi parametri. Col criterio storico del 22% al Sud e del 78% al Centro-Nord, l’impatto sul Pil sarebbe di +3,99% a livello nazionale, di cui +4,3% al Centro-Nord e +2,7% al Sud; con una spesa al 34% al Sud, il Pil nazionale salirebbe del 4,38% con un +4% al Centro Nord e un +5,5% al Sud; poi c’è l’opzione del 50% dei 77 miliardi al Mezzogiorno, strategia che produrrebbe un incremento del 5,74% del Pil reale al Sud, mentre la ricaduta sullamedia delPil nazionale sarebbedel 4,32%.Dopo la “guerra”, insomma, ci sono fattori e premesse per ricostruire: non agganciare il treno sarebbe un peccato imperdonabile.

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